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Il Corbezzolo, un frutto patriottico

di Francesca Gambin

l corbezzolo è una pianta sempreverde, incarna la bellezza discreta del paesaggio mediterraneo, cresce spontaneamente lungo le coste tirreniche e adriatiche, prediligendo terreni aridi e sassosi, resiste al vento salmastro e alla siccità.

Il cobezzolo è una delle poche piante che, in autunno, fiorisce e matura i frutti dell’anno precedente.

Di lui scrisse Teofrasto, 371 a.C. – 287 a.C., padre della botanica, nel suo trattato “Περὶ φυτῶν ἱστορίας”, “Storia delle piante”, lo chiama “κόμαρος”, “kòmaros”: “Κόμαρος δὲ ἐστὶ δένδρον ἄγριον, καρποφορεῖ δὲ ἐν τῷ φθινοπώρῳ, καὶ ἅμα ἄνθη καὶ καρποὺς φέρει” - “Il kòmaros è un albero selvatico, fruttifica in autunno e porta contemporaneamente fiori e frutti.” Alcuni nomi dialettali richiamano ancora al “kòmaros” greco per indicare il corbezzolo, come “cuccumarre” in Lazio e Umbria, “cocomeri” nelle Marche, “cacumbari” in Calabria.

Sebbene non citato frequentemente nei testi canonici, la presenza del corbezzolo emerge in contesti rituali che riportano a Dioniso, divinità del vino, dell’ebbrezza, della natura selvaggia. Ancora oggi in alcune zone del Salento e della Sicilia, il corbezzolo è, infatti, chiamato “mbriacùlu” o “risciulu”, proprio per il suo effetto lievemente inebriante.

Rami di corbezzolo erano usati come decorazione degli altari, insieme a frutti come arance e melograni, legati alla fertilità e alla rinascita, così come appare nell’arte vascolare greca.

Le danze delle Menadi, le Baccanti per i latini, spesso ambientate in boschi sacri, evocano la vegetazione selvaggia dove il corbezzolo cresce spontaneamente ed era considerato una “pianta liminale”, cioè posta al confine tra il mondo umano e quello divino.

In alcuni rituali di iniziazione, i giovani erano condotti in aree boschive dove si raccoglievano rami di “kòmaros” come segno di passaggio, infatti, crescendo ai margini dei boschi e delle radure, rappresentava il l’accesso tra il noto e l’ignoto.

Il corbezzolo, poi, fiorendo in autunno e fruttificando contemporaneamente, incarnando un ciclo vitale continuo, tipico delle piante sacre a Dioniso, e questa duplice presenza, fiori e frutti, simboleggiava la coincidenza di vita e morte, che non è fine, ma soglia verso una nuova forma di esistenza.

Probabilmente è per questo che nel Libro XI dell’Eneide, Virgilio , 70 a.C.- 19 a.C., descrive il funerale di Pallante, giovane alleato di Enea caduto in battaglia, dove il suo corpo è adagiato su un letto funebre ornato di rami di corbezzolo: “[…]"feretro Pallanta reposto / procubuit super atque haeret lacrimansque gemensque, / et via vix tandem voci laxata dolore est. / Atque coronant tela et ramos arboris altae." […]” “[…] Lo adagiarono su un letto funebre ornato di rami di corbezzolo e di armi nemiche. […].” (Eneide XI, vv. 30–31)

La scelta del corbezzolo non è casuale, la pianta, con i suoi frutti rossi e la fioritura tardiva, diventa simbolo augurale di immortalità, evocando la speranza che Pallante, pur morto, possa rinascere in gloria o memoria eterna.

Anche Plinio il Vecchio, 23 d.C. – 79 d.C., naturalista romano, dedica al corbezzolo un passaggio nella sua “Naturalis Historia” nel Libro XV, paragrafo 37: “Arbutus sola inter omnes arborum species et flores et fructus simul ostendit. Unedo appellatur, quod unum tantum edi dicatur.” - “Il corbezzolo, unico tra tutte le specie arboree, mostra contemporaneamente fiori e frutti. È chiamato unedo, perché si dice che se ne mangi uno solo.”

La battuta di Plinio sul nome “unedo”, da “unum edo, “ – “ne mangio uno solo”, è diventata proverbiale, riflettendo il gusto acidulo e tannico del frutto, che non conquista tutti i palati.

Questo giudizio ironico, tramandato nei secoli, ha avuto un curioso destino, è stato ripreso e cristallizzato nella nomenclatura scientifica moderna dal botanico svedese Carl Linnaeus (1707 – 1778), fondatore della moderna tassonomia, formalizzò il nome scientifico della pianta come Arbutus unedo.

Il termine “Arbutus” deriva dal latino “arbuteus”, già usato in epoca classica per indicare il corbezzolo, mentre unedo riprende direttamente l’epiteto ironico di Plinio, un raro esempio di nomenclatura scientifica che conserva al suo interno un giudizio gustativo e letterario dell’antichità, trasformando l’ironia di Plinio in un’etichetta botanica ufficiale.

Nella poesia patriottica italiana il corbezzolo trova voce in Giovanni Pascoli, 1855–1912, nel 1906 le dedica l’ode “Al Corbezzolo”, contenuta nella raccolta “Odi e inni”.

O tu che, quando a un alito

del cielo

i pruni e i bronchi aprono

il boccio tutti,

tu no, già porti, dalla neve e il gelo

salvi, i tuoi frutti;

[…]

o verde albero italico,

il tuo maggio

è nella bruma: s’anche tutto muora,

tu il giovanile gonfalon selvaggio

spieghi alla bora:

il gonfalone che dal lido etrusco

inalberavi e per i monti enotri,

sui sacri fonti, onde gemea tra il musco

l’acqua negli otri,

[…]

Il tricolore!... E il vecchio

Fauno irsuto

del Palatino lo chiamava

a nome,

alto piangendo, il primo eroe caduto

delle tre Rome

In questi versi, il corbezzolo diventa “gonfalone selvaggio”, con i suoi colori, verde, bianco e rosso, diventa metafora dell’Italia che resiste anche nei momenti più duri, che resiste al gelo e fiorisce quando tutto intorno appassisce.

Pascoli evoca paesaggi etruschi, fonti sacre e figure mitiche e suggella il corbezzolo come simbolo del primo sacrificio per la patria, un ponte tra mito, natura e nazione. Il corbezzolo non è solo simbolo poetico e patriottico, è anche frutto della terra, protagonista discreto di una micro gastronomia identitaria, trasformato in marmellate dal gusto intenso e leggermente tannico, mescolate con mele o pere.

In Sardegna, si distilla un liquore aromatico chiamato “corbezzolino”, dal profilo selvatico e amarognolo, che conserva l’essenza spontanea della macchia mediterranea.

In alcune aree del Conero e della Maremma, il corbezzolo è fermentato artigianalmente per ottenere un vino rustico e tannico.

Tra le eccellenze, spicca il liquore al corbezzolo dalla Rau Distillerie in Sardegna, realizzato con bacche spontanee e inserito nella linea “Rau Classic”, si distingue per il suo gusto aromatico, con note selvatiche e leggermente amarognole. A Orgosolo, nel cuore della Barbagia, Piera Cadinu crea il liquore “Caru” con fiori di corbezzolo raccolti a mano sulle pendici del Supramonte, il profilo aromatico è complesso, con sentori di miele amaro, note floreali e un colore ambrato intenso.

È così che nel corbezzolo convivono Dioniso e Pallante, il Fauno del Palatino, le Menadi danzanti e i distillatori sardi.

Nel corbezzolo si cela la storia,

dionisiche danze d’antica memoria.

Pallante che sussurra ai venti più grossi,

Pascoli che rima tra grappoli rossi

Liquori si distillano dai fiori,

son sogni, profumi e sapori.

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