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Perchè rinnegare la propria identità

di Pietro Paglialunga

Nel n. 5 del 2019 cercai di avere risposte sulle diffuse tendenze della nostra ristorazione di richiudere nel dimenticatoio quell’immenso patrimonio culturale della nostra cultura culinaria, ovvero di quel ricco mosaico di ricette che facevano dei piatti della cucina territoriale nazionale un ineguagliato e allettante richiamo che si coniugava l’offerta di un immenso patrimonio artistico e architettonico a piatti e prodotti agroalimentari che hanno affascinato il mondo.

Non è casuale, infatti, che la ricchezza della filiera agroalimentare e l’originalità dei menu della nostra ristorazione abbiano contribuito a fare del cibo “made in Italy” un volano di ricchezza tanto da rappresentare con i suoi 538 miliardi di fatturato, e quasi 4 milione di occupati, ben il 25% del nostro Prodotto Interno Lordo (PIL) oltre ad un export che nel 2019 ha registrato un incremento del 4%, “sfondando” il muro dei 50 miliardi di €.

Una ricchezza che, come ho avuto occasione di ricordare nel mio precedente articolo, si è formata, progressivamente, in quella società rurale, povera ma anche buongustaia, oltre che nelle mense dei nobili dando origine ad un ricettario che esalta la varietà dei prodotti agroalimentari, la fantasia con cui ne esaltavano, di volta in volta, i sapori.

Di tutto ciò Artusi circa due secoli fa tentò di lasciarci una testimonianza organica, ancorché parziale, sperando che fosse la base, oggigiorno, di un’offerta che sapesse esaltare la dimensione culturale e sociale della nostra cucina, la varietà e la bontà dei nostri prodotti di base –d’allevamento e vegetali – la solidità di una professionalità che continuava a perfezionarsi in sintonia con il progressivo modificarsi si una domanda che nasceva dall’esigenza, da parte della clientela, di ampliare la conoscenza con piatti che coniugavano le culture del territorio, all’originalità dei sapori, alla diversificata sapidità di combinazioni alimentari che affondavano le proprie radici nella storia del nostro Paese.

Ma tutto ciò era “poca cosa” rispetto alla volontà di apparire dei ristoratori, in particolare dei giovani che mal sopportavano il diuturno confronto con i loro “antenati”.

Da qui, la scelta di molti giovani professionisti di dedicare le proprie energie e professionalità ai principi della ‘nouvelle cousine’, ovvero a una gastronomia che è figlia solo di se stessa non avendo alcuna affinità con quell’immenso e variegato ricettario che è alla base della cultura gastronomica italiana oltre che del bagaglio professionale della ristorazione degli anni ’80 e successivi.

Una ristorazione che era in grado di affascinare i propri avventori con piatti di rara originalità che variavano da contrada a contrada, da regione a regione, divenendo poi, nel recente passato, il prestigioso bagaglio di una cultura che ha contribuito, non poco, a valorizzare nel mondo quel ventaglio di prodotti agroalimentari e quei presidi gastronomici che hanno contribuito, unitamente ad una enologia che ha saputo approfittare delle opportunità di mercati (interno e internazionale) in fase di profonda trasformazione.

In sostanza, con due secoli di ritardo, rispetto ai nostri cugini d’oltralpe, intraprendemmo quella strada di valorizzazione culturale di nostri prodotti della filiera agroalimentare che oggi rappresentano, come detto, la fonte di una ricchezza reddituale e occupazionale sempre più interessante oltre che uno dei pilastri più interessanti e originali della nostra offerta turistica complessiva. A tanto dinamismo, purtroppo non sembra affiancarsi una ristorazione altrettanto volitiva e desiderosa di essere ambasciatrice in grado di presentare al meglio nei propri menù, l’immenso ricettario che compone il puzzle della cucina italiana.

Per inspiegabili e inaccettabili ragioni stanno progressivamente scomparendo dai menù molte prelibatezze gastronomico che fanno parte delle nostre identità territoriali. E’ infatti sempre più diffusa l’assenza sui menù di alcuni ristoranti siciliani della ‘pasta ‘ncasciata’ che ha una propria declinazione da provincia a provincia dell’isola; così, in Sardegna, non sempre è possibile imbattersi nel frugale ‘pane frattau’ o nel profumatissimo ‘agnello al finocchietto’. Sta diventando desueto, in Puglia, trovare le ‘frittatine alla menta’ o, due dei simboli più antichi e diffusi di alimenti‘street food’: il ‘calzone di cipolla’ o la ‘focaccia pugliese’. Non meno rara è anche l’opportunità di imbattersi in un pregevole quanto simbolico piatto della cucina regionale, ovvero le ‘orecchiette alle cime di rapa e seppie’.

Tutti piatti che richiederebbero ben altri tempi – lo stesso dicasi per gli abruzzesi ‘spaghetti alla chitarra con polpettine e/o pelosi (granchi) e per le originali (sempre abruzzesi) ‘crispelle ‘mbusse’ – nella loro preparazione e una diversa organizzazione delle dinamiche di lavorazione in cucina di sicuro nel coperte dalla copertura dei prezzi di esitazione.

Disaffezione che accomuna la riproposta di piatti della cucina tipica Lucana, Laziale, Molisana, Campana, Marchigiana, Roma-gnola, Piemontese, Veneta, Friu-lana, Giuliana e chi può aggiungere lo faccia, sapendo che questo processo sta portando la nostra Italia ad abbandonare la propria identità culturale, una professionalità formatasi nei secoli e dall’esigenza di dare appetibilità alla ripetitività di piatti e preparazioni obbligate dalla scarsa disponibilità di denaro. Una cultura che oggi, invece, potrebbe rappresentare fonte di nuove opportunità di reddito e di occupazione oltre che essere la rampa di ‘lancio’ per una originale valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio fortemente segnato dalle produzioni agricole, dalle dolci colline pettinate dai vigneti e dagli olivi secolari, dai casati in pianura, dalle malghe in montagna, dai terrazzamenti fioriti che contribuiscono a contrastare il degrado idrogeologico. Un ‘unicum’ che, come detto, contribuisce a fare del nostro Paese un ambito terminale per soggiorni che, nonostante tutto, contribuiscono per un quarto alla formazione del PIL nazionale, a dare lavoro, senza calcolare l’indotto, a oltre 3,8 milioni di addetti, a rappresentare un impareggiabile messaggero dell’export agroalimentare italiano. Di questo, sicuramente, si disserterà ampiamente in occasione del Congresso Europeo delle Confraternite Enogastronomiche, in programma a Verona dal 5 al 7 marzo prossimi, ovvero di tutte quelle congregazioni che da sempre sono gli autorevoli custodi della più antica, tipica e territoriale, gastronomia italiana oltre che della suo patrimonio culinario formatosi nei secoli con il contributo corale di famiglie e massaie sempre più coinvolte nell’utilizzo dei frutti, in particolare quelli spontanei, della terra, dando loro quella veste di originalità che li sapeva rendere graditi ai componenti del desco familiare.

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