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Cara e vecchia mela Veneta

di Enzo Gambin

La mela in cucina può essere utilizzata in moltissime varianti, si sposa con tutto, carni, pesci, formaggi, ortaggi, legumi, tanto che Marco Gavio Apicio, antico gastronomo romano del I secolo a.C., nel suo De Re Coquinaria, propone la cottura di una spalla di maiale, soffritta con i porri, e finita di cuocere con dadini di mela. A Venezia non solo si mangiavano le mele provenienti dall’entroterra, ma con queste si faceva una raffinata gastronomia, basti pensare che, nel “Libro per cuoco”, dell’Anonimo veneziano del Trecento, erano proposte ricette con le mele che sono tali ai nostri giorni: le “Fritelle de pome per Quaresima” (frittelle di mele per la Quaresima”; Confetti de melle apio o de pome paradiso (Confetti di miele e mele paradiso); A ffare codogniato bono vantagiato (fare la cotognata in maniera vantaggiosa).

Nelle sue numerose varietà, la mela non è mai un frutto, bensì un “pomo”, quello vero è il torsolo, mentre la parte commestibile è la polpa, vale a dire il ricettacolo del torsolo.

Certamente la coltivazione della Mela nel Veneto ha origini antiche, con produzioni che rimasero a lungo per uso familiare, in piccoli appezzamenti, orti e broli. Il primo a parlare di mele venete fu Plinio il Vecchio, 23-79 d. C., nella sua “Naturalis Historia”, dove elenca ben trentasei varietà di mele e include anche quella “lanosa”, ossia con la buccia coperta da una leggera pelosità. Plinio sosteneva che queste mele erano prodotte solo nel territorio di Verona e chi, meglio di Lui, poteva conoscere questa produzione, giacché, molto probabilmente, nacque a Verona; ecco come le presenta: “Quasi forestieri sono certe mele, che nascono solo nel territorio di Verona, le quali si chiamano lanate, perchè son coperte di lana, si come sono le mele struthee, e le pesche, le quali non hanno altro che nome, che le favorisca … “. Plinio fa ancora di più, descrive la campagna veneta percorsa da filari di viti, sostenute da alberi da frutto, molti, probabilmente, erano di meli “lanosi”.

Forse nei suoi soggiorni a Verona Dante Alighieri ha assaggiato questi pomi “lanosi”, gradevoli e croccanti, ed è bello immaginare che abbiano ispirato nel Canto XXII del Purgatorio la terzina:

Ma tosto ruppe le dolci ragioni

un alber che trovammo in mezza strada,

con pomi a odorar soavi e buoni;

(Ma d’improvviso i dolci ragionamenti furono interrotti da un albero, che trovammo in mezzo alla via, con pomi dal dolce e piacevole profumo).

Con le crisi economiche del Seicento il trevigiano Giacomo Agostinetti, 1597 – 1692, nella sua opera letteraria “Cento, e dieci ricordi, che formano il buon fattore di villa”, raccomandava “De Pomi: Non vi è frutto più utile [Fattore] nel tuo brolo, che il Pomo: ſe bene per lo più ne fanno un anno sì, e l’altro nò, ma l’anno che fruttano ne fanno in tanta copia, che suppliscono d’avantaggio all’anno antecedente….. Di questi frutti qui in Trevisana, secondo i nomi co’ quali li chiamiamo, ne sono di dodeci sorti, cioè Appi, Calimani, Dolzani, dalle coste, dall’ojo, Farinoſi, Gajoli, Ruzeni, da Roſa, Roſſoni sicuri, e Roſſoni Gialli,e da S. Piero, e di tutti questi non ſe ne può havere ſe non quelli da S. Piero senza calmo..”

Alla fine del Settecento l’abate veronese Bartolomeo Lorenzi, 1732 –1822, nella sua opera “Della coltivazione dé monti” Milano 1826, pagina diciotto canto LXXI, pone in versi la presenza del melo nella montagna veneta:

… il melo colorito

Curvò i rami odorosi a l’innocente

Cultor: beato a pien, se non vedea…

E più beato ancor, se della pianta

Rimirando le fronde e i vaghi pomi,

La riveria siccome cosa santa,

Ancora, nelle “Lettere inedite” l’abate Lorenzi riportava “ Ho ricordati nel mio Commentario molti salvatici di melo, ……., da innestarsi nel venturo anno….. Il prodotto … è …. considerabile, e d’uno spaccio assai facile. Così è, che trova compratori più pronti e più puntuali ciò, che al piacere serve piuttosto che quello che alla necessità.”

Interessante poi è la citazione nel “Catechismo Agrario”, 1821, di Ciro Pollini, 1782-1833, autore della più ampia opera dedicata alla flora del Veneto a pag. 346 riporta che, ancora agli inizi dell’Ottocento, le mele selvatiche erano indicate nella forma dialettale come “la meluggine o melo a selvatico (volgarmente pomar salvadego, Pyrus Malus a sylvestris) amanti dei colli .. ”. A ben pensare nell’indicazione del Pollini di “la meluggine” non viene da pensare a quanto scritto da Plinio sulla mela “lanosa” e all’attuale presenza di mele che ora noi chiamiamo “rugginose”?

A Schio, nel vicentino, fu fondata nel 1883, su iniziativa del senatore Alessandro Rossi, 1819 – 1898, la “Scuola Convitto teorico-pratica di Pomologia e di Agricoltura”.

Alla fine dell’Ottocento la coltivazione del melo avveniva solitamente ad alto fusto, priva o quasi di elementari cure colturali, come la potatura, e, questo, dava produzioni alterne da anno ad anno.

In ogni frutteto familiare vi erano meli di varietà differenti, con maturazione scalare, che permettevano di ovviare alla limitata conservabilità dei frutti. Agli inizi del Novecento si contavano ben settantuno di varietà di melo, molte traevano il nome proprio dal momento in cui si coglievano, i più precoci erano i “pomi” di S. Pietro, 29 giugno, fino ad arrivare ai più tardivi con i “pomi” di San Martino, 11 novembre.

Nella “Monografia della provincia di Verona”, 1904, il conte Sormano Moretti, 1834 –1908, riporta “Di meli, anche nei luoghi più elevati trovansi diffusi per la coltura e ricercate dal commercio le varietà dette qui: “Biancona” maturantesi a settembre; “Dalla Rosa” che è mela odorosa, dalla polpa bianca, tenera, aromatica; “Dolci e Garbe” dette anche pomi dalle miole ossia dalle midolle; “Decie”, della famiglia delle Renette: “Durelle” di lunga conservazione e cotogni verdi e aspri da potersi mangiare previa cottura.”

Dopo la Prima guerra mondiale nel Veneto si è iniziato a fare impianti di melo in filari regolari, per la maggior parte promiscui con le colture erbacee e su piede franco.

Il vero sviluppo della coltura si è avuto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra il 1950 e il 1965, con nuove forme di allevamento e varietà più rispondenti alle esigenze di mercato.

Un mercato che ora la vede la Mela Veneta in continua evoluzione, ma che conserva sempre un occhio attento al suo antico passato, tanto che si sta prospettando la possibilità di attribuirle da parte della Comunità Europea le Denominazione d’origine protetta (DOP).

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