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Grandi vini rossi a tavola per Natale

di Mario Stefani

Ha più senso, qualitativamente parlando, produrre vini da mescolanze di vitigni (come veniva più frequentemente fatto in passato) o da vitigno unico?

E’, questo, un argomento su cui si è dibattuto molto in questi ultimi anni nel mondo enologico. Spesso a vuoto, penso, perché non credo si possa stabilire una legge universale a proposito di ciò, ma valutare caso per caso, considerando soprattutto gli obiettivi che ci si pone di raggiungere producendo un vino. E’ nella tradizione di quasi tutte le zone produrre vini da un’insieme di uve, un po’ per il classico atteggiamento prudenziale tipico del mondo contadino, un po’ per il difficilmente contenibile pullulare di mutazioni e incroci spontanei formatisi e stratificatisi nel corso del tempo nei vigneti. Il termine uvaggio, come base compositiva di un vino, significava, una volta, non di un insieme 2-4 uve come concepiamo oggi, quando si parla di uvaggio, ma, spesso, di un esercito di svariati vitigni, a volte sconosciuti al loro stesso coltivatore. Questo insieme di tanti (anche 5-10 e più) vitigni si è andato col tempo sempre più assottigliando nel numero, setacciato dall’uomo che col tempo ha mantenuto in vita, ossia nei propri vigneti, solo i vitigni più interessanti.

Oggi, rispetto alle epoche in cui si sono formate e consolidate le tradizioni di certi uvaggi, le motivazioni che spingono un viticoltore a coltivare un vitigno piuttosto che un altro ci possono apparire diverse da quelle di un tempo.

In realtà, credo che ‘molle’ come l’ambizione personale a fare sempre meglio, le mode, le considerazioni economiche anche più spinte, siano sempre esistite, ma che abbiano influito sulla produzione vinicola passata solo in modo meno appariscente rispetto ad oggi: o meglio, con una misura più diluita nel tempo, vista la infinitamente minore ricchezza e disponibilità di mezzi di comunicazione, rispetto all’epoca odierna.

Ho detto questo perché ritengo che, ove presente, occorra cercare il senso profondo di certe tradizioni; a volte, si tratta anche di cercarlo per la prima volta, perché non è detto che le motivazioni di certe usanze e scelte di fondo fossero, in passato, così consce. Allo stesso modo, occorre capire le motivazioni profonde in virtù delle quali si vuole radicalmente cambiare certe tradizioni, o semplicemente rifuggirne. A volte queste motivazioni sono proprio profonde, legate a una ricerca di nuovi orizzonti sensoriali-qualitativi, o a una riarmonizzazione del prodotto con la percezione collettiva di chi ne fruisce nel frattempo mutata; a volte sono più superficiali, legate a ragioni di comodità dal punto di vista pratico-economico o al frettoloso assecondamento di una moda sicuramente motivata ma non così profondamente.

La parola uvaggio indica semplicemente quali sono le uve che compongono un vino. Per un vino composto al 100% dalla stessa uva si parla di “uvaggio monovarietale”, mentre nel caso in cui diverse uve siano vinificate assieme si parla di “uvaggio multivarietale”.

Quest’ultima tecnica, in particolare, ha origini molto antiche: era infatti quella utilizzata dalla maggioranza dei contadini, che erano soliti vendemmiare insieme uve delle diverse varietà presenti nelle loro vigne, unendole prima della fermentazione alcolica.

Oggi le cose sono cambiate e l’uvaggio avviene in modo tutt’altro che casuale: la difficoltà principale di questo procedimento sta nella necessità di selezionare uve con tempi di maturazione simili, oltre che con una struttura e con sensazioni olfattive che si integrino perfettamente.

Per questo, nei decenni i produttori hanno ridotto nettamente il numero di uve presenti nelle loro coltivazioni, in modo da selezionare le sole uve che abbinate dessero ottimi vini.

Se questi princìpi base dell’uvaggio vengono rispettati, il risultato può essere sorprendente e l’unione di uve differenti può esaltare aspetti che non emergerebbero con un uvaggio monovarietale. Possiamo dire che nel caso di un uvaggio ben fatto, insomma, 1+1 non fa quasi mai 2.

Più semplice e più battuta in tempi recenti, anche perché più adatta alla produzione su larga scala, è la tecnica del taglio, altrimenti detto mix o blend, che consiste invece nel miscelare vini una volta terminata la fermentazione: questo può accadere sia tra vini prodotti con uve di diversa origine, sia con uve dello stesso uvaggio (unendo ad esempio due vasche di sangiovese).

A differenza dell’uvaggio, quindi, il taglio permette di produrre vino da diverse uve anche con maturazioni molto differenti: queste vengono raccolte separatamente e trasformate in vino, mentre dalla primavera successiva si procede con il taglio. Tipicamente questo compito spetta all’enologo, che ricerca la soluzione ideale per migliorare o cambiare le caratteristiche del vino, la stabilità, il colore, piuttosto che per nascondere carenze e difetti.

Tra i tagli più tradizionali e più apprezzati dai palati italiani c’è il taglio bordolese: un assemblaggio di vini prodotti con uve di origine francese, precisamente originarie della regione di Bordeaux, ma che possono essere coltivate anche in Italia. È il caso per lo più di uve Merlot e Cabernet – Sauvignon o Franc – (in quantità minori anche Shyraz, Carmenère e Petit Verdot), che unite danno vita a vini unici.

Il risultato varia evidentemente a seconda della percentuale delle singole uve utilizzate, ognuna delle quali ha caratteristiche ben definite: il Merlot è ricco di colore, presenta tannini dolci, ha un gusto morbido e rotondo, che riesce a stemperare la forza del Cabernet (il Franc ha chiari sentori erbacei, mentre il Sauvignon è ancor più corposo e strutturato).

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