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Anguria: che dolce confusione

di di Enzo Gambin

Anguria: che dolce confusione

La lingua italiana è ben capricciosa, ricchissima di dialettismi e cessioni da lingue lontane, il latino, il greco, l’arabo. Prendiamo il frutto che più caratterizza l’estate, l’anguria, il suo nome varia secondo la zona geografica, dove si consuma. I toscani la chiamano “cocomero” o “poppone”, nomi di provenienza latina, “cucumis”, cocomero, e “pĕpō”, grosso cocomero, che, nel parlato dell’epoca, era “peponem”.

I napoletani, che con il loro porto erano a contatto con le marinerie inglesi, francesi e tedesche, indicano l’anguria come “melone d’acqua”, come, d’altra parte, per gli inglesi è “watermelon”, per i tedeschi “wassermelon” e per i francesi “melon d’eau”.

I calabresi nominano l’anguria “zipangulu”, termine che giunge dal greco-calabro “kēpángouron”, o “kipánguro”, ed è composta da “kipos” “giardino” e “áng(o)uro(n)” “cetriolo”, con il significato di “cetriolo ortivo” o “cetriolo coltivato negli orti”.

Gli abruzzesi chiamano l’anguria “cetrone”, deriva dal latino “citrium”, “cetriolo”.

Per i liguri l’anguria è “succa pateca”, o “pateca”, vocabolo che arriva dall’arabo “battiha”, che, passando per i porti spagnoli e portoghesi, è giunto a Genova come “sücca pateca”, termine che è stato poi esportato ai francesi, che l’hanno ritoccato in “pastèque”.

Nell’Italia settentrione, dal Friuli Venezia Giulia al Piemonte, il nome anguria è stato introdotto e diffuso nel periodo bizantino, VI-VIII secolo d.C., momento in cui l’Impero Romano d’Oriente teneva Ravenna come sede imperiale per l’Italia, e risale al termine tardo greco di “angóuria” (ἀγγούρια), il plurale di angóurion (ἀγγούριον), che vuol dire “cetriolo”.

Il passaggio tra angóuria e angùria sarà stato molto breve così, considerato che questo termine ha un ascendente ”imperiale”, possiamo pensare che “anguria” non sia solo un nome regionale ma panitaliano.

L’anguria è originaria dell’Africa tropicale e meridionale, dove era raccolta e poi coltivata sia come alimento e sia per il suo elevato contenuto d’acqua.

Il famoso dottor David Livingstone, medico missionario ed esploratore dell’Africa dell’età vittoriana, 1813 – 1873, nelle annotazioni dei suoi viaggi, riportava che l’anguria cresceva abbondante e allo stato selvatico nel deserto di sabbia rossa del Kalahari e lì avrebbe avuto origine.

Le prime testimonianze della coltivazione dell’anguria si trovano, però, in geroglifici egiziani di cinquemila anni fa, i quali la ritenevano generata dal dio Seth, divinità del deserto e identificato dal colore rosso. Se le leggende portano sempre una verità nascosta, questo può trovare riscontro su quanto riferito sulla provenienza dell’anguria da parte del dottor David Livingstone. Effettivamente, in un clima caldo e siccitoso, più di tutto poteva valere un’anguria, quale mezzo di sostentamento e di bevanda, un dono che solo un dio del deserto poteva dare. Se poi si aggiunge il rosso della sabbia del Kalahari e della polpa dell’anguria, tutto porta al dio Seth e ai suoi misteri.

Attraverso una lunghissima storia di selezione naturale, l’anguria selvatica si è evoluta in un frutto ricco d’acqua, la cui polpa, mangiata da animali e uomini, ha permesso la diffusione dei semi e, da qui, la sua affermazione evolutiva, diventando sugosa e zuccherina. I primi agricoltori avranno certamente coltivato delle angurie selvatiche, poi, scegliendo i semi in un secolare addomesticamento, si saranno ottenuti frutti più rossi e più succulenti. Il rosso dell’anguria aveva non solo lo scopo di fungere da contenitore per i semi, conservandoli e proteggendoli, ma di rendere la polpa più interessante per il palato.

Scritti ebraici del II secolo e testi latini del VI secolo, uniscono l’anguria ai frutti dolci, come i melograni, i fichi e l’uva.

L’evoluzione dell’anguria è però ben evidenziata dalla pittura, se iniziamo da una Roma barocca, troviamo “Angurie, pesche, pere e altra frutta nel paesaggio” di Giovanni Stanchi detto Dei Fiori, 1608 – 1675, con angurie dalla buccia verde, con all’interno semi neri contenuti in cavità rosse e una polpa bianchiccia. Duecento anni dopo le angurie hanno polpa carnosa e rossa, simile alle odierne, come in: “Natura morta con frutta” di Alvan Fisher, 1792-1863, “Natura morta con angurie, pere e uva”, di Lilly Martin Spencer, 1822 – 1902, “Natura morta con anguria” di Barton Stone Hays, 1826-1914.

Oltre che alimento l’anguria era utilizzata nella medicina egizia per le proprietà rinfrescanti e diuretiche, rimedi che furono considerati validi anche da Caio Plinio Secondo detto il Vecchio, 23- 79 d. C., e dal medico greco Dioscoride (40 circa d. C. – 90 circa d. C).

Queste opinioni e pratiche curative antiche meritano di essere ricordate, perché l’odierna scienza sta dando loro ragione. L’anguria, infatti, è ricca di levo-citrullina, un aminoacido che si trasforma in arginina, che ha la capacità di dilatare i vasi sanguigni, riducendo così la pressione del sangue in persone anche obese e con ipertensione arteriosa; hanno pure un buon apporto di zuccheri e un cospicuo quantitativo di vitamina A e C.

Le varietà d’anguria ora più diffuse sono la Crimson Sweet, tonda, allungata, con un bel verde chiaro alternato a strisce verde scure, e la Sugar Baby, è più piccola, tonda e di un verde scuro intenso. Sono pure in un aumento anche le produzioni di piccole angurie, più facili da trasportare, meno ingombranti e di più rapido consumo; non mancano quelle cubiche, facili da impilare, esistono persino quelle a piramide.

Chi produce più angurie al mondo è la Cina che, nel 2002, ha realizzato il “China Watermelon Museum”, il “Museo dell’Anguria”, che si sviluppa in 4.000 metri quadrati e, nel suo interno, ha testimonianze che viaggiano dalle origini africane a ogni aspetto della coltivazione, comprese le antiche poesie cinesi dedicate all’anguria.

Grazie all’antica arte thailandese di scolpire la frutta e la verdura, l’anguria con ”Watermelon Carving” è diventata un frutto artistico, con il quale è possibile realizzare veri e propri capolavori floreali e sculture di ogni forma, da utilizzare come guarnizione per valorizzare piatti, cibi, dolci e gelati, o come decorazione di centri tavola, per arricchire scenografie in ristoranti e in cerimonie di gala. Non dimentichiamoci che l’anguria fa anche parte e del patrimonio cinematografico con “Il grande cocomero”, film del 1993, diretto da Francesca Archibugi. In quest’opera l’anguria diventa allegoria, che invita a ricercare un positivo cambiamento del mondo, tanto da far sostenere al personaggio Arturo: “tu sei una cosa che io cercavo da tanto tempo. La cercavo già alla tua età, quando andavo a sedermi come uno scemo negli orti di cocomeri.”

Nel film “Il gusto dell’anguria”, del 2005, scritto e diretto da Tsai Ming-liang, interpretato da Lee Kang-sheng, l’anguria diventa una possibilità di vita in una Taipei, sfinita da una grande siccità, e l’annunciatrice televisiva invita a risparmiare l’acqua e bere succo d’anguria.

Anguria, che bel frutto, un po’ sognatore e un po’ stravagante, non smette mai di piacere e di affascinare, ha solo qualche problema di lingua, ma a chi rivolgersi per far chiarezza su come chiamarlo: anguria, cocomero, popone, cetrone, pasteca, zipangulu, melone d’acqua?

Chiediamolo a Dante Alighieri, Lui che ha molto contribuito a formare la lingua italiana:

Ecco la Sua opinione:

“Vien dietro a me, e lascia dir le genti:

sta come torre ferma, che non crolla

già mai -lo nome anguria- per soffiar di venti.

Parafrasiamo:

(Seguimi, e lascia parlare le persone:

comportati come una torre immobile, a cui non crolla

mai il nome anguria per il soffiare del vento.)

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