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Ciro Ambrosio, lo chef napoletano fra tipicità e innovazione

di Nino D’Antonio

Una nonna che è vissuta con esaltante piacere fra pentole e fornelli. E un papà che ha dedicato ogni momento libero all’appassionata ricerca di ricette e piatti, ormai caduti in disuso.

Queste le radici di Ciro Am- brosio (37 anni, napoletano, cresciuto a mezza collina fra il mare e il Vomero, sposato, due figli, Denise 13 e Brian 7) che lo porteranno senza esitazione nelle aule dell’Istituto Alberghiero Cavalcanti, con l’obiettivo di mettere ordine, con scienza e didattica, alla sua decisa passione. Cinque anni a ponte fra scuola ed esperienze varie, ovunque si riportassero in vita le pietanze più antiche di Napoli. E intanto via alla caccia di antichi ricettari, Cavalcanti, Buonvicino, fino a quell’Apicio, ai quali lo rimandano tutti i testi.

Poi, l’ambizione di esportare la cucina partenopea oltre confine. E qui le tappe non si contano, dalla Spagna all’Egitto, fino alle nostre Tremiti e alla Valtellina. Il successo è crescente, ma Ciro resta un nostalgico napoletano, con quel culto della famiglia che lo ha spinto a sposarsi a ventanni. Così torna a casa, dove da Cocoloco – un tempio per artisti, letterati, uomini politici – a Palazzo Caracciolo, un cinque stelle con ristorante internazionale, ha modo di affinare il mestiere e portare avanti le sue ricerche.

Dalla colatura di alici agli “ziti allerta” (vale a dire in posizione verticale) ai paccheri ripieni, all’uso sapiente del caciocavallo (il parmigiano non arrivava in epoca borbonica), alla frittata di “scammaro” (spaghetti senza uova) e così via. Ciro Ambrosio è un giovane riservato, di poche parole, ma con una straordinaria capacità di far tesoro di tutto quanto apprende, a cominciare da una corretta lettura del concetto d’innovazione.

“Dobbiamo intenderci su questo termine, che non significa stravolgere un piatto, ma solo migliorarlo rispetto al passato, adottando le nuove tecniche di cottura e una più attenta selezione degli ingredienti. Per il resto, è la storia a fare testo…”.

Ciro Ambrosio vive a Pomi-gliano d’Arco, un centro popoloso a pochi chilometri dal capoluogo, con uno stabilimento dell’Alfa e l’orgoglio dei natali al grillino Di Maio.

“Lavoro ovviamente a Napoli a Terra Mia, nel cuore del Vomero, dove non manco di applicare la mia filosofia. A non tener conto che, come tutti, ho il mio sogno nel cassetto. Che condivido con mia moglie Daniela, assai brava in cucina.”

Il sogno è di dar vita a un locale tipico e accogliente, proprio a Pomigliano.

Perché mentre la città ha camminato con i tempi, migliorando - e di molto - l’offerta gastronomica (e mi riferisco a quella più autentica), la provincia ha segnato il passo. Nel senso che è rimasta legata alla tradizione senza adeguarla ai nuovi orientamenti del gusto.

Il progetto di questa trattoria accende la fantasia di Ciro. La vede ubicata in zona tranquilla ma centrale, con la cucina in piena evidenza e una brace che consenta di recuperare tutti quei piatti che venivano realizzati a fuoco vivo. Conduzione decisamente familiare, e non più di trenta coperti. L’immagine è così entusiasmante che mi viene da chiedergli se c’è qualcosa che gli farebbe sacrificare il suo amore per la cucina.

La risposta non lascia dubbi. “Solo la mia famiglia. Ma spero che l’alternativa non si ponga mai. E che i miei figli mi aiutino a trasformare il sogno in realtà. Perché in mancanza per me sarebbe un fallimento”.

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