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I grandi vini di Puglia

di Nino d'Antonio

La Puglia è in testa alla classifica nazionale per la produzione di uve da tavola e da vino, nonché di olio e ortaggi. Una serie di primati che fanno di questo territorio una “officina verde”, dove le colture intensive di grano duro, cotone, tabacco, frutta, hanno ormai raggiunto risultati da record. Due soli riferimenti: siamo dagli otto agli undici milioni di grano duro (Barilla conduce a Foggia il più grande pastificio d’Europa) e dai venticinque ai trentadue milioni di quintali di pomodoro, destinato all’industria conserviera.

E il vino? Le Puglie vantano ben 28 Doc e 4 Docg, di cui molte presenti sui mercati esteri. Anche se per troppi anni queste terre hanno offerto solo un vino onesto e godibile. Niente di più. E per giunta del tutto anonimo. Si diceva “vino di Puglia”, e la generica denominazione includeva l’intera regione. A dispetto di una realtà geografica (e non solo) quantomai differenziata.

Perché una cosa è il Tavoliere - ovvero la Daunia - e ben altra cosa sono le Murge, da quelle baresi a quelle di Brindisi e Taranto. E infine c’è il Salento, con la sua irripetibile fisionomia di terra fra due mari, nonché carico di una storia senza confronti.

Il Negroamaro fino agli anni Ottanta – non dico a Torino, ma a Napoli – non era più di un nome.

A prevalere era il marchio di origine, la Puglia. E questo significava vini da taglio, destinati a dare forza e longevità ai vitigni nobili del Piemonte e della Francia, piuttosto anemici. Così, a partire dai primi dell’Ottocento (e la puntale indagine voluta da Murat sull’economia del reame di Napoli lo conferma), il mercato del vino vive grazie soprattutto a una rete di mediatori, abilissimi nel gestire i rapporti fra vignaioli e produttori, nonché sicuri garanti per entrambe le parti, in fatto di qualità, tempi di consegna e pagamenti.

Oltre mezzo secolo fa il trasporto su gomma era impensabile. Così il paese che si giovava di una stazione ferroviaria assumeva il ruolo di capofila, rispetto a tutto il comprensorio. Questo spiega perché il Primitivo è legato al nome di Manduria, anziché a quello di Sava, dove pure si ritiene sia nato. E perché l’Aglianico d’Irpinia abbia viaggiato a lungo sotto il nome di Taurasi, altro paese con stazione.

La vite in Puglia è presente fin dall’VIII secolo a.C. con lo sbarco dei primi coloni greci e la fondazione di Taranto. Il far vino era già da allora attività talmente diffusa da suggerire l’utilizzo di simboli vinarii per il conio delle monete, le famose “Nutria”. E non sorprende che i “Mera” tarantini si siano imposti come vini di gran pregio in epoca romana, celebrati non solo da Plinio, Marziale, Orazio, ma esportati fino in Oriente. Poi, a partire dal Quattrocento, il vino pugliese verrà imbarcato sulle tartane alla volta di Venezia e dei centri del Nord, aprendo così un mercato che è rimasto attivo nei secoli.

Delle tre Puglie, il Tavoliere è la porta d’ingresso per chi giunga da Napoli. La grande pianura è quella che hanno percorso per millenni i pastori d’Abruzzo e d’Irpinia, alla ricerca di pascoli invernali.

Terra quantomai generosa, vanta sette Doc, anche se in effetti quelle strettamente legate alla provincia di Foggia sono solo cinque. Le altre due (Moscato di Trani e Aleatico di Puglia) sono in prevalenza presenti in area barese.

Per il Tavoliere si va dal popolare San Severo (un vino intorno ai 250 mila ettolitri per ogni cantina sociale, imbattibile per diffusione e prezzo), al più noto Cacc’è mmitte di Lucera. Un nome che richiama il vino spillato dalla botte e versato nel bicchiere. Quindi riempi, bevi, e ripeti l’operazione il più a lungo possibile. Anche questo è un blend di uve: Troia, Montepulciano, Sangiovese e Malvasia nera di Brindisi.

Rispetto al San Severo, siamo a una produzione piuttosto contenuta, che nelle annate più felici sfiora il mezzo milione di bottiglie. Abbiamo infine il Nero di Troia e il Rosso di Cerignola, quest’ultimo anche con la qualifica aggiuntiva di Riserva.

A favore del Nero di Troia gioca la presenza di un’attiva Cantina Sociale, ma soprattutto il richiamo turistico del territorio e la suggestione di un centro storico ben conservato. E alla particolare miniera di storia e di monumenti, propria di quest’area delle Puglie, va ricondotta anche la notorietà e il prestigio di due vini di antica tradizione, quali il Tavoliere e il Rosso Cerignola.

Già agli inizi del Novecento, dei 28mila ettari del territorio di Martina Franca, ben oltre diecimila furono trasformati in vigneti, privilegiando non solo il Primitivo, ma anche il Verdeca e il Bianco di Alessano, fra i più antichi vitigni dell’areale.

Il clima piuttosto caldo, i vitigni spesso di basso profilo, e soprattutto una forte produzione non hanno giovato, in passato, all’affermazione dei vini delle Murge. Le quali, da oltre trentanni, hanno dichiarato guerra alla quantità per ritagliarsi un preciso segmento sul mercato dei Bianchi, in un territorio per gran parte votato ai Rossi. Valgano per tutti due sole indicazioni, il Locorotondo e il Martina Franca.

Ma l’identità dei vini del Salento - dal Primitivo al Negromaro alla Malvasia Nera – non è estranea agli allevamenti in massima parte ad alberello pugliese, tipico di tutto il territorio. E’ un sistema di potatura corta, dove il frutto della pianta non supera mai i 30/40 centimetri, e sul quale (in genere senza l’ausilio di un alcun sostegno) vengono allevate alcune branche. Ognuna di queste accoglie uno o più speroni, che a loro volta danno luogo a una o due gemme. E’ un’antica tecnica d’impianti, propria dei paesi caldi e poveri d’acqua, portata in Puglia come in Sicilia (l’alberello è assai diffuso anche sulle falde dell’Etna), dai Greci intorno al VI secolo a.C.

Al di là di un’orgia di vitigni, in gran parte autoctoni, e variamente presenti, tre sono le uve che hanno fatto la storia dell’enologia pugliese e ne hanno segnato la riscossa, a partire dagli anni Ottanta: Negroamaro, Primitivo e Malvasia Nera. Il primo - bandiera del Salento - è diffuso anche in altre aree della Puglia. Ma se è vero che un vitigno va messo in relazione col territorio in cui dà il meglio di sé, il caso del Negroamaro non lascia dubbi.

Il vino - che è poi diventato anche l’insegna di un famoso gruppo rock - ha una storia piuttosto tormentata. Per anni infatti è stato usato in vari uvaggi, facendo da base a quei famosi Rosati di cui le Puglie, e in particolare il Salento, sono eccellenti produttori.

Su chi invece abbia avviato i primi impianti, c’è qualche certezza in più. Il merito va ai monaci Basiliani, i quali non solo cominciano a produrre vino, ma affiancano all’opera dei vignaioli quella dei bottai. Così dai porti di Gallipoli e di Brindisi, il Negroamaro partirà per Venezia, l’Istria, la Croazia, in quelle grandi botti che gli artigiani salentini hanno imparato egregiamente a costruire, e viene spesso scambiato con spezie e panni di lino.

Ma perché Negroamaro? E’ la parola “nero” ripetuta due volte, in latino niger e in greco antico mavros. Va registrata tuttavia l’ipotesi di qualche studioso, che riporta la parola “amaro” al forte gusto che sprigionano i tannini. In ogni caso, non ci sono testimonianze a conforto dell’una o dell’altra tesi. Il Negroamaro è utilizzato in 14 Doc sulle 28 presenti nelle Puglie, e il vino risulta, dopo il Merlot, con il più alto concentrato di resveratrolo, uno dei più efficaci antiossidanti.

Il vino con il più intrigante retaggio di storia, rimane tuttavia il Primitivo, la cui prima etichetta risale al 1891. Pare che il vitigno sia giunto nelle Puglie attraverso la ex Jugoslavia e il mare Adriatico, le cui sponde hanno da sempre alimentato un vivace scambio di uve, e non solo. A chi e a quando risale la presenza del vitigno a Manduria? Negli Annali di Viticoltura del 1874, ne scrive Giuseppe Perelli. Ma già qualche anno prima, nel 1869, il Primitivo del signor Cozzolungo ottiene una menzione di merito all’Expo Universale di Vienna.

Spetta, però, ad un prete, don Filippo Indelicati, il merito di aver apprezzato - già nel Settecento - la tendenza di quest’uva a maturare anzitempo. Di qui primitivus. Ma perché il vitigno trovi dimora a Manduria, bisognerà attendere le nozze della contessina di Altamura, la quale porterà dalla sua città le prime barbatelle. Il vitigno è stato identificato a partire dal ’67 con lo Zinfandel, grazie agli studi di un professore della California. E questo ha fatto ipotizzare che il Primitivo sia arrivato in America proprio dalle Puglie.

Il territorio non è molto esteso. In cambio, è una zona omogenea, con rocce di tufo che poggiano su strati di argilla. L’uva assorbe con facilità il calore, per cui si ha quasi un appassimento naturale che fa aumentare gli zuccheri ed elevare la gradazione alcolica del Primitivo.

Rimane a questo punto la Malvasia Nera, uva affascinante e difficile da etichettare. Basti pensare che ben diciassette vitigni risultano iscritti nel Registro delle Varietà sotto la denominazione Malvasia, con ogni comprensibile differenza biochimica e morfologica. Ma la suggestione maggiore è legata al nome. Tutto comincia in un’isoletta del Peloponneso. Si chiama Nomenvasia (porto con una sola entrata), dove si produceva un vino assai apprezzato lungo tutta la costa adriatica, soprattutto a Venezia. Ma quel nome risulta di difficile pronuncia. Così diventa Malvasia. E visto che a servire questo vino sono in genere piccole osterie, ecco che per estensione i veneziani finiscono per chiamarle “malvase”.

Risulta evidente che le Puglie sono un pianeta, più che una regione. Lo sono sempre state. Per la storia che hanno vissuto e i traffici marittimi con l’Oriente. E la movimentata varietà dei suoi vini, è solo un’ulteriore testimonianza. Traffici a parte, un primo confine va segnato fra la Malvasia Bianca (Chianti, Istria, Oristano, Pantelleria) e quella Nera, presente fra Lecce e Brindisi, nonché nell’Astigiano. Ma va chiarito che non c’è molta differenza fra la Malvasia di Lecce e quella di Brindisi, anche se sono iscritte nel Registro delle Varietà con due diversi codici. Questo forse spiega perché quella di Brindisi dia un Bianco secco di grande carattere, mentre quella Nera di Lecce – colore rosso rubino, sapore armonico – venga spesso abbinata al Negroamaro, al quale dà sapidità e corpo.

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