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La flessione dei nostri vini in Cina

di Nino d'Antonio

Gli esperti di Nomisma e di Wine Monitor non ne fanno un dramma. Ma l’export del vino italiano in Cina ha subito una battuta d’arresto, lo scorso anno. Anche se l’Italia rimane al quarto posto (la Germania è al terzo) nelle classifiche dei buyers mondiali, e la flessione nelle vendite è stata appena dello 0,2%, rispetto al calo della Francia, al 7,2% a volume, e a quella più pesante della Spagna.

C’è da stare tranquilli, allora? Sì e no. In ogni caso, qualche considerazione va fatta, a cominciare dal rapporto col vino in quelle lontane terre.

La Cina beve da sempre il baiju, un superalcolico che sa di propilene.

qui nel volgere di poco più di un decennio, la progressiva scoperta del vino con una sicura scelta dei Rossi, a forte struttura e di elevata gradazione.

Un preciso orientamento del gusto, che è stata a lungo sfruttato dai francesi e dagli australiani, arrivati laggiù assai prima di noi, e dove continuano a tenere banco. Ma come può nascere l’opzione del vino, in una terra che non l’ha mai registrato nell’ambito dei consumi familiari? Il solo luogo, deputato a questo obiettivo, è il ristorante. Dove la cucina costituisce l’elemento base per proporre i vini che meglio si abbinano ai vari cibi.

E qui scatta già un punto debole per l’Italia. Purtroppo, fatte salve le due megalopoli, la presenza in Cina di ristoranti italiani è pressocché inesistente.

Qualche locale per andare avanti è diventato un ibrido, a mezza strada fra i piatti cinesi e quelli italiani. Così è saltata la prima e più qualificata sede per scoprire il vino e la gamma dei suoi gusti

E allora? Al pari di qualunque altro prodotto, il vino per essere venduto deve essere conosciuto. Ora - per quanto l’Italia si dia da fare - le iniziative promozionali continuano a essere isolate, e spesso poco efficaci.

In pratica, manca non solo una risposta mirata e stimolante, ma una metodologia negli interventi.

Risulta così quantomai efficace l’impegno della Fiera di Verona, che attraverso il Vinitaly – l’evento fra cultura del vino e marketing fra i primi al mondo – ha ospitato in Cina una folta rappresentanza di produttori italiani, grazie anche a una maggiore disponibilità degli spazi espositivi. L’evento – che può contare su un secolo di storia alle spalle – si è tenuto a Chengdu, con la partecipazione di oltre tremila aziende, e un massiccio numero di buyers.

Ne consegue che la CFDF (China Food And Drinks Fair) risulta l’occasione più valida per accreditare la conoscenza dei nostri vini, in un contesto di particolare qualificazione. Intanto, va detto che il mercato cinese non è più quello di qualche anno fa. I buyers sono maturati professionalmente, grazie soprattutto a frequenti soggiorni in Italia, nei territori viticoli più qualificati.

Il che ha significato sia una diretta conoscenza delle tecniche di vinificazione che un più netto distinguo fra le varie aree produttive. Un argomento a lungo piuttosto confuso, che impediva di cogliere l’identità dei nostri vini al di là di una generica tipologia.

Oggi – e il direttore di Verona Fiere, Giovanni Mantovani, lo conferma – siamo invece a un sicuro distinguo. Nessun buyer confonde più un Rosso delle Langhe con un Brunello.

Si aggiunga che anche la figura dell’enologo made in Cina ha trovato un suo preciso inserimento dopo anni di incerta immagine. Si tratta in gran parte di giovani che hanno studiato in Italia (preferite le università toscane) con lunghi stages preso le cantine più qualificate.

E vivere in Italia ha significato per loro anche la scoperta della nostra cucina, e il conseguente rapporto cibo-vino. Risulta pertanto evidente che se si vuole diffondere in Cina questo patrimonio di conoscenze, occorre una presenza in loco di una rete di ristoranti. Ovvero, una sorta di piattaforma della gastronomia italiana, per favorire la degustazione dei nostri vini.

In pratica, una geografia del nostro Paese a tavola, la più ampia e varia possibile. Grazie a una larga partecipazione di operatori del settore, convinti ed entusiasti della missione da compiere.

Bisogna insomma fare squadra, mettendo insieme ristoratori, cantine, attività promozionali e tanta in formazione.

Ma non di carattere commerciale, bensì ispirata alla storia e alle tradizioni contadine che accompagnano i nostri vini. Da quelli più noti ai più modesti.

Solo l’abbinamento cibo-vino può allargare i consumi e quindi il mercato.

E’ questo il pensiero del console generale in Italia a Shanghai, dove il Vinitaly è presente fin dal ’98, e da qualche anno anche con una propria sede, a ridosso della nostra rappresentanza diplomatica.

Perché, a dispetto della leggera flessione nelle vendite, tira un buon vento per il nostro settore agroalimentare, vino in testa. Ma – ripeto – occorre fare sistema, superare le piccole iniziative personali (la vendita delle proprie bottiglie su Ali Babà ha dato esiti assai scarsi), se si vuole utilizzare anche il canale on line, visto che l’e-commerce è in Cina più che florido.

Ancora una volta, siamo alla necessità d’interventi su misura, da gestire anche sui social cinesi per offrire risposte esaurienti e suggestive a chi si affaccia alla scoperta del vino. Le scelte da adottare sono quantomai chiare e condivise dagli enti interessati. C’è da sperare solo che non manchino di fare proseliti fra gli operatori.

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