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L'Arancia, il frutto d'oro

di Enzo Gambin

Nel capolavoro letterario le “Metamorfosi”, del poeta latino Ovidio, 43 a.C. 18 d. C., al Decimo libro, si narra la storia d’amore e d’inganno tra Atalanta e Ippomene.

Atalanta, abile cacciatrice e velocissima nella corsa, era la figlia di Iasio, re dell’Arcadia; la giovane era poco propensa a prendere marito, così ai pretendenti prometteva di unirsi in matrimonio solo se riuscivano a vincerla in una gara di velocità a piedi, al perdente era però riservata la morte.

A questa competizione partecipò anche Ippomene, un giovane innamorato, ma astuto, il quale, prima della di accettare la sfida, chiese ad Afrodite, dea dell’amore, di agevolarlo.

La dea acconsentì e gli donò tre “pomoli d’oro”, consigliandogli di farli cadere uno a uno lungo il percorso, così Atalanta si sarebbe incuriosita e avrebbe rallentato la corsa.

Con questa furbizia Ippomene riuscì a celebrare il matrimonio con Atalanta.

Da questo racconto, il Poliziano, 1454 – 1494, intellettuale di corte e tra i maggiori poeti italiani della sua epoca, ne trasse ispirazione e rappresentò questa scena al capitolo XCIV (94) delle sue “Rime”:

…….

Raggia davanti all’uscio una gran pianta,

che fronde ha di smeraldo, e pomi d’oro;

e pomi ch’arrestar ferno Atalanta,

che ad Ippomene dierno il verde alloro.

…...

Nell’immaginazione del Poliziano quei “pomoli d’oro” altro non erano che delle arance, i frutti paradisiaci, che simboleggiavano l’amore e la fecondità, questo dal fatto che il frutto di quest’agrume era ed è nominato “esperidio”.

Il termine “esperidio” proviene dal greco “Eσπερίδες”, Esperidi, le tre bellissime fanciulle, figlie della dea Notte, che erano custodi del mitico giardino che Gea, madre di tutte le divinità, donò a Zeus quando prese in nozze Era, la massima divinità femminile dell’Olimpo greco.

In questo giardino le Esperidi custodivano gli alberi che producevano i “Pomi aurei”, che rappresentavano la fecondità e l’amore.

Secondo il poema mitologico “Teogonia” di Esiodo, VII secolo a. C, i “Pomi aurei” furono sottratti e resi disponibili agli uomini da Ercole nella sua undicesima fatica.

Nella realtà, l’ingresso della pianta d’arancio nell’area mediterranea avvenne dall’Oriente, tramite la via della seta.

Sappiamo che fu coltivato in Sicilia con il nome di “malum aureum”, mela dorata e Plinio, 23 - 79, nella Naturalis Historia informava che lo chiamavano anche “melo d’Assiria” o “Melo di Media”: “Alcuni popoli tentarono di trapiantarlo nel proprio territorio […] trasportandolo in vasi di terracotta nei quali avevano praticato dei buchi per far respirare le radici”.

Questi “Meli d’Assiria” probabilmente erano le “melarancie”, di cui ne è rimasta viva memoria nelle favole di Giambattista Basile, 1566 – 1632, “Lo cunto de li cunti” dove “Tartaglia, figlio del Re di Coppe, era sempre molto malinconico, così il padre e il ministro Pantalone, si ingegnano a guarirlo, consultano medici e organizzando feste. Ma contro la guarigione di Tartaglia complottavano Clarice, Leandro e Brighella, con il sostegno della Fata Morgana. Un giorno Morgana si presentò a corte vestita grottescamente e, questo, fece cogliere dalle sghignazzate Truffaldino, personaggio impegnato nel far divertire il principe. Morgana, per ripicca, condannò il principe a infatuarsi di tre melarance. Con l’aiuto del mago Celio il giovane riuscì a impadronirsi dei frutti, che, schiudendosi, rivelarono tre belle fanciulle”.

Questo fantastico racconto con le tre fanciulle, che ben si avvicinano alle tre Esoperidi, fu ripreso dal drammaturgo veneziano Carlo Gozzi, 1720 – 1806, nell’opera teatrale “L’amore delle tre melarance”.

Il compositore russo Sergej Prokof’es, 1891 –1953, rivisitandone i testi del Gozzi, ne fece pure un’opera teatrale: “L’amore delle tre melarance”.

Se l’arancia è entrata nelle favole a narrare storie magico/fantastiche non meno interessante è la provenienza del suo nome, perché, da una semplice analisi si potrebbe legare al termine latino “aurum”, oro, propriamente non è così.

Il nome arancia deriva dall’indoeuropeo, “nāgaranja”, letteralmente “gusto degli elefanti”, poi passato al persiano “nāranǵ”, e giunto a noi come arancia.

Non ne era però così convinto il sommo poeta Gabriele d’Annunzio perché, quando gli commissionarono di creare un nome ad un liquore, ottenuto da una miscela di Brandy ed essenza di arancia, s’ispirò al termine latino “aurantium”, arancio, proponendo “Aurum”, fu un grande successo, che ancora continua.

Probabilmente le “nāranǵ” erano le arance amare e solo successivamente giunsero quelle dolci, forse introdotte in Europa dagli scambi commerciali dei genovesi o dei veneziani, che avevano relazioni i lontani Paesi dell’Oriente, luogo d’origine delle arance dolci.

Nelle lingue dialettali italiane le arance sono chiamate anche “portogallo”, come a Napoli, poi “pattuàllu” in Sicilia e “purtuall” in Abruzzo.

Pascarella Cesare, 1858 – 1940, poeta dialettale romano, scriveva:

“Nonsignora, maestà.

Lei si consija

Co’ qualunque sia ar caso de spiegallo,

E lei vedrà ch’er

monnoarissomija,

Come lei me l’insegna, a un portogallo (a un’arancio)”.

(La scoperta dell’America. Alla memoria de mi’ madre, III:5-8)

Solo nel dialetto veneto il termine “naranza” si avvicina all’originario “nāranǵ”, probabilmente perché Venezia aveva importanti contatti commerciali con l’Oriente, per mare e per terra.

L’arancia non solo è un ottimo frutto, ma è pure una bibita di grande successo commerciale e da oltre un secolo, da quando nella California del 1914 il chimico Callen Ward ne sviluppò una ricetta, che prese il nome di “Orange Crush”. Dieci anni dopo, nel 1924, in Italia, Ezio Granelli, proprietario dell’azienda produttrice dell’acqua San Pellegrino, volle inventare una nuova bibita rinfrescante e frizzante, investì in ricerca e in otto anni sviluppò l’”Aranciata San Pellegrino”, che, nel 1932, presentò alla Fiera Campionaria di Milano.

Il prodotto piacque subito e tantissimo, tanto che divenne il sinonimo del made in Italy.

Poi, nel 1934, arrivò l’“Orangina”, ideata dal farmacista spagnolo dott. Trigo Mirallès, il quale vendette la ricetta a Léon Beton di Marsiglia.

La commercializzazione dell’Orangina iniziò subito, ma la sua diffusione fu frenata dalla Seconda guerra mondiale; riprese negli anni Cinquanta e fu popolarissima in Algeria, Marocco, Tunisia, dove peraltro era prodotta.

Nel 1940, in Germania, s’ideò la “Fanta” grazie a Max Keith, imbottigliatore della Coca-Cola che, a causa dell’embargo della Seconda guerra mondiale, non ebbe più la possibilità di avere lo sciroppo della Coca-Cola, così sviluppò una bevanda aromatizzata alla frutta, la “Fanta”, prendendo dal termine da Fantasie, attraverso il latino “phantasia” e dal greco “φαντασία”, fantasia.

Nel 1955 la produzione della Fanta si trasferì a Napoli, nello stabilimento della Società Napoletana Imbottigliamento Bevande Gassate, e fu introdotta nel mercato come “Fanta, l’aranciata d’arancia”, a sottolineare la genuinità del prodotto e la presenza di arance italiane.

Nel 1971, l’arancia entrò nella produzione cinematografica con il film “Arancia meccanica”, tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess del 1962, dove questo frutto è rappresentato con molte affinità all’uomo, normale e naturale in superficie, bizzarro e particolare all’interno.

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