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Musica e amore nell'albicocca

di Enzo Gambin

Da una fantasiosa opera della letteratura cinese, il “Shanhai Jing”, ossia il “Libro dei Monti e dei Mari”, che risale ad oltre 2000 anni fa e scaturita da più antiche fonti orali, abbiamo notizie dell’albero di albicocco, al tempo considerato l’albero dell’armonia, perché univa, nelle sue forme e nel suo sviluppo, bellezza e grazia.

Nella Cina del tempo gli albicocchi erano chiamati “Sing” e crescevano numerosi sulle colline, erano associati all’educazione e alla medicina, tanto che, la parola 杏壇, “albicocco altare”, significava e ha ancora la stessa evidenza di “cerchio educativo”.

Chuang Tzu, filosofo cinese del IV secolo a. C., raccontava che Confucio insegnava ai suoi studenti in un bosco di alberi di albicocco.

L’associazione dell’albicocca con la medicina era dovuta al fatto che i suoi noccioli erano molto utilizzati come corroboranti dopo le malattie.

A poco a poco l’albicocco raggiunse il “Regno di Ararat”, l’Armenia, una terra posta ai confini orientali d’Europa e nel pieno dei Monti del Caucaso, dove s’inserì come pianta ornamentale nei giardini re .

Dai sui rami si ricava uno strumento musicale il “tsiranapogh”, che significa “anima dell’albero di albicocca””, poi diventato “duduk”, dal russo “dudka”, strumento diverso.

La leggenda narra che la nascita del “tsiranapogh” avvenne perché il vento s’innamorò dell’albicocca e giocava con le sue foglie verdi.

Arrivò l’autunno, le foglie caddero e il vento non poté più giocare con lei, allora chiese alla tempesta di spezzargli un ramo, che fu raccolto da un giovane, il quale lo forò dalla cima al fondo e il vento poté infilarsi dentro ed emettere suoni da innamorato, caldi, morbidi, tristi e nostalgici.

Quando questo antico regno venne conquistato dai Persiani di Dario I, V sec. a.C., questi invasori, avendo la necessità di avere legname, ordinarono di abbattere tutti gli alberi che non producevano frutto.

Questo sarebbe stato il destino anche dell’albicocco, se una fanciulla non avesse pianto sotto la sua chioma per una notte intera dalla paura di non produrre più i “tsiranapogh” e al mattino, si trovò che l’albero era carico di frutti dorati, vellutati, succosissimi e dolci.

Qualche secolo più tardi l’albicocco giunse la Grecia, forse portato da Alessandro Magno, qui il filosofo e botanico Teofrasto, 371 a.C. –287 a.C., le diede il nome di “crisoméla”, unendo il termine χρυσός, chrysós, oro, per il colore dei frutti, e μηλιά, miliá, mela, con il significato di delizioso e tenero.

Quando l’albicocco arrivò anche a Roma, si generò della confusione sul suo nome, che fu associato alle pesche e alle prugne.

Un po’ di chiarezza la fece Columella, 4 – 70, nel suo “De re rustica”, che chiamò l’albicocco “armeniacum”, ponendo il nome in stretta relazione con la regione dell’Armenia.

Plinio il Vecchio, 23- 79, naturalista e agronomo definiva il frutto dell’albicocco come “praecocium”, in considerazione della precocità del germogliamento, partendo dalla parola latina “praecox”, “precoce”.

Stessa interpretazione si trova anche nel ”Edictum de pretiis”, “Editto sui prezzi massimi”, emanato dall’imperatore Diocleziano fra il 20 novembre e il 9 dicembre 301 d.C., indicate come “praecoqua”,

Palladio Rutilio Tauro Emiliano, 375 – 450, chiamava le albicocche sia “armenia” e sia “praecoqua” e le piante “armonium” o “praecoquum”.

Gli arabi, arrivati sulle sponde del Mare Mediterraneo, apprezzarono la dolcezza dell’albicocca e la introdussero tra gli ingredienti del “khoshaf, una macedonia di frutta secca, tipica del periodo di Ramadan, denominandola “al –barqūq”, termine che poi fu acquisito nelle lingue romanze come “albaricoque” in spagnolo, “abricot” in francese, “albero cocco” o “albicocca” in italiano.

L’albicocco non si diffuse molto in Europa, tanto da non comparire nel “Capitulare de villis vel curtis imperii”, noto come “Decreto sulle ville”, emanato negli ultimi anni del regno di Carlo Magno, fine dell’VIII secolo, per disciplinare le attività rurali, agricole e commerciali delle aziende agricole dell’impero “Quanto agli alberi vogliamo che ci siano frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi.”.

Dell’albicocco ne parlò Pietro Andrea Mattioli, 1501 –1578, medico e botanico nei suoi “Commentarii in libros sex Pedacii Dioscoridis de medica materia Liber primus”, che scrisse: “L’Armeniache, le quali scrisse Dioscoride chiamarsi dai Latini precocia, si dimandano dai Greci bericocia le quali anchora che alquanto sia corrotto il vocabolo, n’è rimasta memoria in Toscana appresso di Sanesi: le chiamano Imperoche, Bacoche, Moniache.

Ritrouarsene di più ſorti, secondo la bontà del terreno, che le produce, e secondo che s’annestano spesso: perciocché l’annestarle più e più volte molto lor giova in farle grosse.

Ma son tutte però ben gialle, quando sono mature.

A Roma, dove si chiamano Grisomele, ne sono delle così grosse, che quasi aggiungono alla grossezza delle pesche.

Sonuene assai di belle in Lombardia, chiamate volgarmente Armellini.

Maturansi, o verso il mese di Maggio, e di Giugno prima che tutti gli altri frutti.

O imperò meritamente chiamate Precoce; perciocché tal vocabolo non significa altro, che primaticce, et mature avanti à gli altri.

Et secondo che riferisce Galeno al 11. delle facultà de cibi, come che molto si rassembrino questi frutti nella natura loro alle pesche; nondimeno non si corrompono, come fan quelle coſi presto nello stomacho: quantunque l’esperienza dei moderni medici voglia, che sieno questi assai più corrottibili, che le pesche.”

L’albicco o “armellin” entrò nella letteratura tenera e amorevole con Pietro Bembo, 1470 –1547, quando scrisse “Gli Asolani”, un racconto dedicato a Lucrezia Borgia, della quale si era invaghito, dove ad Asolo, nel trevigiano, si discuteva d’amore, presso la corte di Caterina Cornaro, regina di Cipro:

Caro armellin, ch’innocente si giace,

Vedendo, al cor mi riede

Quella del suo penser gentile e strano

Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:

Sì novamente me da me disciolse

La vera maga mia che, di rubesta,

Cangia ogni voglia in pia.

(Libro secondo - Capitolo XVI)

Rapito dal fascino degli albicocchi fu il pittore Vincent Van Gogh, 1853 – 1890, che, nella primavera del 1888, produsse il quadro «Albicocchi in fiore», un sottile intreccio dei rami con molta luminosità, in un’atmosfera incantata che ha qualcosa di musicale, di tenero e di lirico.

Pure Giovanni Pascoli, 1855 – 1912, si meravigliò vedendo l’“armellino in fiore”, lo rappresentò tra le rime della “Cinciallegra”:

La Cinciallegra

E poi cantò la cinciallegra, e Rigo tornò.

T’avea sognata sul mattino,

t’avea sognata tra un odor di spigo,

sognata, o Rosa, in un candor di lino,

candor di fiori prima della foglia,

senza una foglia, o candido armellino!

Avevi i piedi ignudi su la soglia,

tremavi come un armellino in fiore,

che trema tutto al vento che lo spoglia.

Ancora oggi l’albicocco è presente nella cultura musicale giovanile, come con VillaBanks, pseudonimo di Vieri Igor Traxler, nato nel 2000, rapper, ossia compositore di oratoria musicale che utilizza «rima, discorso ritmico e linguaggio di strada» che ha creato “Albicocca”:

Fresco sapore di mare, di more, di amore

Premura di farti venire, paura di premere troppo

Stringimi fino a tremare

………….

Macedonia di frutta esotica tropicale

Cosa ci facevamo lontano uno dall’altro?

Altro che Barcellona, da te fa sempre caldo

Albicocca di giugno pressata

Albicocca in cambio del mio leche

”Albicocca” è pure il recentissimo componimento della giovane band fiorentina “Aspettativa”, dove con la sonorità pop punk s’intrecciano frasi musicali brevi e semplici, che possono essere ripetute frequentemente:

Albicocca è un modo per dire ad un’altra persona

quanto sia essenziale, quanto incida sul proprio umore

e quanto sia capace di colorare tutto quanto di rosa.

E tu, se tutto il mondo è blu, conosci qualcuno capace di colorare tutto di rosa?

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