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Martondea o Martondela?

di Giancarlo Saran

Porcomondo è un’interessante jam session in chiave suina giunta alla seconda edizione e fortemente voluta da Matteo Guidolin, sindaco di Riese Pio X, in realtà Gran Norcino della Ingorda Confraternita del Musetto. All’interno del ricco (e goloso) palinsesto della manifestazione svoltasi dal 30 novembre al 2 dicembre vi è stata una riflessione molto interessante su uno dei prodotti (e delle relative tradizioni) che fa parte del più profondo imprinting carnivoro del Veneto centrale, ovvero le Martondee (per dirla in slang locale). Quattro produttori a confronto: due macellai, un ristoratore, una cooperativa agricola. Ne è emerso un interessante confronto, non solo di retrogusti papillari, ma soprattutto di tecniche e tradizioni che si rifanno ad una antica arte norcina, soprattutto domestica, radicata in ogni famiglia, quando la mattanza del divin porcello era momento di aggregazione atteso tutto l’anno (tranne che dal diretto interessato). Tuttavia, da questo originale recupero di una tradizione che non deve diventare archeologia organolettica, ma rimanere quanto mai viva e attuale, è emersa una riflessione che è stata al centro dell’incontro. Ovvero quali differenze vi siano tra le Martondee del Veneto centrale e le Mortandee trentine. Sorelle separate o cugine di prossimità? L’una ben conosciuta (è stata anche Presidio Slow Food per qualche anno, l’altra una sorta di Cenerentola di frattaglia). E’ uno dei dubbi che prende chi si interessa a questa curiosa preparazione che, tra le due realtà, ha molti punti in comune ma anche particolarità tutte da scoprire.

La Mortandea è trentina, più precisamente della Val di Non, con capitale Tassullo dove, da anni si svolge il concorso della ”Mortandela più bona” . A Caldonazzo, dove da ventanni si svolge la “festa della mortandela”, si usano invece filetto e fegato di maiale. Era tradizione che le famiglie della vallata acquistassero un maialino alla Fiera dei santi per allevarlo poi tutto l’anno con patate, crusca, scarti di ortaggi e fieno, come risulta da una esauriente letteratura reperibile anche in rete.

Il nome deriva dalla tecnica con cui venivano lavorate carni povere quali lingua, fegato e coppa. Venivano pestate nel mortaio e, da qui, poi avvolte nel reticolo del suino, il “redesin”. Prime tracce di queste preparazioni si hanno nell’800 anche se, una ventina d’anni fa, era un prodotto oramai relegato ala passione di qualche nostalgico. Lo sviluppo intensivo della coltivazione della mela aveva reso marginale la produzione di altre colture utili nell’alimentazione dei suini locali, tradizionalmente presenti nelle stalle di molte famiglie.

Poi, con lo sviluppo della curiosità di antiche tradizioni, la mortandela è stata riscoperta e valorizzata per i turisti golosi, tanto che, adesso, la lavorazione prevalente prevede parti nobili quali spalla, coscia, pancetta.

Ha una pezzatura di circa due etti.

Può essere consumata fresca, abbinata a minestra d’orzo o crauti, o affumicata e stagionata, come salume.

In questo caso viene posta su assi di legno ricoperte da una farina di grano saraceno per favorirne l’asciugatura. Dopo ca. 12 ore vengo sottoposte ad affumicatura per ca. 6 ore. Dopo di che vengono girate e si ripete il ciclo. A distanza di un mese sono pronte per il consumo.

Il segreto sta nella concia, in quanto il mix di spezie usate è legato a formule e tradizioni familiare, che vanno dal pepe alla cannella, passando per anice stellato, chiodi di garofano, noce moscata. Non sempre viene usato il retino ma, se consumate fresche, queste palline di macinato vengono avvolte da una farina di grano saraceno, facilmente reperibile in loco.

Nel Veneto centrale esiste, da sempre, un prodotto simile, la Martondea, di cui però non si trovano tracce se non nella tradizione orale di pochi appassionati. Subito dopo la macellazione si provvede a macinare i residui meno nobili dell’animale, conciati con spezie varie, tra cui si trova spesso l’uvetta, e avvolte nel retino. Nella tradizione familiare della macellazione del maiale un caposaldo era mandare i ragazzi più giovani a cercare “gli stampi” per la confezione delle martondee. Un modo per tenerli lontani dalle scene più cruente del sacrificio dell’animale, anche perché questi fantomatici “stampi”, erano consegnati dentro pesanti sacchi con il divieto di aprirli durante il tragitto di ritorno, pena i peggiori rimproveri di tutto il parentado. Salvo scoprire poi, nell’ilarità generale, che dentro questi sacchi non c’erano gli stampi, ma sassi e pietrame vario. A differenza della mortandee trentine, le martondee del Veneto centrale, quindi, aspettano solo di essere riscoperte, per la loro straordinaria bontà abbinata all’essere testimoni di una delle più curiose tradizioni della civiltà rurale legata alla trasformazione delle carni di maiale. Il miglior modo di gustarle è quello di spadellarle a fuoco lento, lasciarle riposare e poi rifinirle con un veloce passaggio in forno, senza ledere l’involucro che le contiene. Possono essere un ottimo fast food ad abbellire una fetta di pane, ma ci statto bene anche abbinate ad una fresca insalata di radicchio variegato di Castelfranco Veneto, e magari una polentina di mais biancoperla, tipica del territorio. Qualcuno le ha ribattezzate “Le martondele del Giorgione”, quale richiamo al più illustre cittadino, posto che le foglie dell’intrigante cicoria richiamano i colori di una tavolozza.

Alla fine dell’incontro a ciascuno dei quattro produttori è stato consegnato un simpatico diploma quali “Ambasciatori della Martondela”, ma la cosa più curiosa (e di buon auspicio) è che, al tavolo dei degustatori c’era, forse più o meno casualmente, un produttore della cugina montanara, per cui il felice gemellaggio e confronto, tra le due creature di frattaglia, quella valligiana e la meno conosciuta di pianura, è già stata inserita nel calendario di Porcomondo 2020. Segnare in agenda.

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