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“Potona e Sugoli”

di Enzo Gambin

Ci sono dei piatti che si presentano a ogni stagione e, con un proprio linguaggio fatto di profumi e sapori, destano l’emotività dei ricordi, è il caso dei dolci della vendemmia del basso Veneto, la “potona” e i “sugoli”.

Quando ancora la vite si coltivava per ottenere il vino di casa e i filari demarcavano la fine del campo, la raccolta delle uve, nei primi giorni di ottobre, era anticipata dallo stacco dei migliori grappoli, che servivano per preparare la “potona”, un intriso di farina e chicchi d’uva. La realizzazione di questo dolce era meticolosa, si sceglievano e si separavano gli acini dal raspo, si lavavano bene, si ponevano in una pentola e si univano a tanta farina quanto bastava per creare un soffice composto.

L’impasto si cuoceva a fuoco lento e per circa quaranta minuti, sino a che le bucce dei chicchi d’uva non erano ben sfatte.

La “Potona” non si mangiava subito, doveva riposare per un paio di giorno e poteva durava per più settimana, se in superficie compariva della muffa bianca, era tolta e sembrava che questa pelosità fungina conferisse un sapore più dolce e meno acidulo. Le varietà di viti presenti in questo basso Veneto, veronese, padovano, rodigino, vicentino erano la Negretta, la Clinton, la Corbina, la Groppello, la Barzegana e, per facilitare la raccolta delle uve, si tagliava prima i tralci, cai, più lunghi, attuando così già così una potatura.

Attraverso il senso figurato di questo “Potare”, Pŭtare in latino, probabilmente si è derivato il nome di “Potona”, così, dall’adattamento di una precedente parlata si è creata una parola “dialettale”, che ha assunto nuove gradazioni lessicali e fonetiche. Nel tempo, poi, con il termine “Potona” si è invalso anche un appellativo per indicare cose confuse o fatte male, oppure pensieri contrastanti, tale significato, che certamente è metaforico, potrebbe essere conseguito e riferito alla mescolanza degli ingredienti e alla molle consistenza della “Potona”.

L’utilizzo dell’uva fresca per la preparazione di dolci è presente anche in altre culture gastronomiche, come la “Stiaccia toscana”, preparata dove oltre che all’uva e alla farina si aggiunge pure un po’ di lievito di birra per dare più volume al dolce.

I “Sugoli”, invece, sono una sorta di budino e, per la loro preparazione, serve il mosto in fermentazione. Allora, per ogni bicchiere, si univa un cucchiaio di farina, si amalgamava il tutto e si faceva sobbollire per circa un’ora, avendo l’accortezza di togliere la schiuma che si formava sopra.

Dopo la cottura il composto assumeva un aspetto denso e cremoso e si lasciava raffreddare per un giorno e duravano anche sino a Natale. Se si considera da dove proviene la parola “Sugolo”, subito si considererebbe “sugo”, ma vi è un termine latino che, a mio parere, sembra si adatti meglio ed è “suculus”, succulento, che, pur essendo affine a “sucus”, meglio esprime la sugosità di questo dolce.

Nel tempo, scomparse le antiche varietà di viti, abbandonate le consuetudini della vendemmia anche i “Sugoli”, come per la “Potona”, hanno perso il loro rituale contadino e sono entrati nella gastronomia con molte varianti, a volte migliorative, che ne hanno modificato le ricette e i gusti, prevedendo aggiunte di zuccheri e lieviti, o divenendo delle vere e proprie marmellate o confetture.

Piace però pensare che questi dolci fossero legati a un’intima religione popolare e uniti alle “Vinalia”, festività romane celebrate in onore di Giove e Venere, particolarmente quelle officiate il giorno 11 di ottobre, quando il flamen dialis, ovvero il sacerdote addetto al culto di Giove, operava il taglio del primo tralcio di vite.

In tale occasione si commemoravano anche Cerere, divinità materna della messi e della fertilità, e Bacco, dio del vino e della vendemmia, e si confezionavano offerte abbinate a queste due ultime divinità, unite alla vita dell’uomo come numi tutelari dei cereali e della vite, e, forse, queste profferte erano proprio la “Potona” e i “Suguli”.

A questi momenti ben si adegua ora una filastrocca della vendemmia d’autunno.

 

 

“Sono là cinque operaie

che vendemmian tutte gaie;

metton l’uva nei cestelli

mentre cantano stornelli.

Hanno il dolce, nella bocca,

della man che l’uva tocca;

sono allegre, chiacchierine

come fossero bambine.”

 

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