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Pope e l’arte analitica

di Michele Beraldo

Le prime rilevanti enunciazioni critiche a sostegno della “pittura analitica”, furono elaborate tra il 1972 e il 1973 attraverso le mostre di Trieste, Bassano del Grappa e Verona. Allora si comprese l’urgenza di destinare uno spazio a quegli artisti che - come sottolineava Klaus Honnef - condividevano il proposito di orientare la propria attività pittorica “verso un’opera autonoma che finalmente non riproducesse né oggetti né situazioni e non li rappresentasse neppure, ma si limitasse a dimostrare se stessa senza risalire al mondo dell’esperienza”. Nell’aderire ai principali intenti del neoplasticismo di Piet Mondrian e all’azzeramento radicale del suprematista Malevič, per i quali la pittura deve uscire dalla sensazione soggettiva, dalla mutevolezza delle espressioni, dalle emozioni e dall’inconscio, la “nuova pittura” tendeva inoltre a riportare l’attenzione all’analisi del processo pittorico, al suo divenire, ai materiali utilizzati e ai rapporti tra superficie linea e colore. Nel suo saggio di apertura alla mostra “Fare Pittura” di Bassano del Grappa, Vittorio Fagone stabiliva fossero il colore, la linea e lo spazio le tre dimensioni da dover essere messe in discussione e verificate: “Il colore non è simbolo, non costituisce elemento di rappresentazione ma un campo fisico da sollecitare in due direzioni prevalenti: la continuità e l’emanazione luminosa. La linea non è più scrittura né contorno ma scansione, molte volte essa è solo virtuale, provocata dall’accostamento di due bande di colore diverso o dello stesso colore in due saturazioni.

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