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Albino Armani: quasi una favola

di Nino D’Antonio

Inizia da questo numero una serie di profili di Nino D’Antonio sui maggiori esponenti del mondo del vino. Per il Veneto, apre la serie Armani, la cui famiglia fa vino dal 1607. Oggi l’impresa conta ben cinque cantine, e vede Albino alla presidenza del Consorzio di Tutela delle Venezie.

 

A metterli insieme, non sono che frammenti di modeste cronache. Da distribuire a ritroso, per oltre quattro secoli, fra zolle avare, un po’ d’uva e quelle mani sporche di terra.

Eppure, gli Armani possono vantare un lampo di luce in tanto grigiore. Un atto notarile del 1607 li consacra proprietari di qualche ettaro. La lunga stagione che li ha visti spezzarsi le reni, può dirsi conclusa.

La famiglia – intesa nel significato e nei suoi valori più antichi – si è intanto spostata a valle. E questo vuol dire l’apertura a coltivazioni negate in montagna. A non tener conto dell’avvio di quei piccoli traffici, a ponte fra baratto e qualche commercio, del tutto esclusi a certe quote.

Certo, il trasferimento più a sud non manca di favorire l’incremento di quei vigneti che danno uve rosse, visto che nel Seicento il vino trentino tira bene in Baviera. I documenti d’epoca citano infatti un pugno di uve autoctone – Marzemino, Malvasia, Teroldego, Lagrein - e averle in gran parte conservate ha del miracoloso. Un traguardo al quale non è estranea la fatica degli Armani.

Secolo dopo secolo, verrebbe da dire, il legame della famiglia col territorio si è fatto più intenso e carnale. La terra è sempre aspra e impervia, segnata da forti escursioni termiche, per cui ogni frutto va guadagnato zolla per zolla. E’ un avvio duro, ma gli Armani hanno sufficiente orgoglio e una sicura fede. Così, quasi senza rendersene conto, stanno tirando fuori le regole di un “mestiere”, ancora tutto da inventare. Al punto, che ogni piccola conquista ha per loro il sapore di un trionfo.

Intanto, le generazioni si passano la mano, e vivono l’evolversi della tecnica di far vino, da quella più rudimentale…

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