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I vini liguri tengono banco sulla Riviera di Levante

di Nino D’Antonio

Oltre duecentosettanta chilometri di costa, da La Spezia a Ventimiglia, non sono pochi. Le colline che fanno da corona al mare producono in gran parte vini Bianchi. L’uva più diffusa è il Vermentino, secco, di corpo leggero, nemico delle basse temperature. Pare si tratti di una varietà di Malvasia, approdata in Corsica verso il 1300, e di qui in Provenza e poi in Liguria, grazie ai soliti marinai. Ma resta in piedi anche l’altra ipotesi, che vuole l’uva originaria dell’isola portoghese di Madera. Allevata un po’ in tutta la Liguria, riflette in pieno, di volta in volta, i caratteri più spiccati del territorio.

Il Vermentino Colli di Luni Doc è un vino che assomma in sé ed esprime la duplice anima di queste terre. E’ infatti fra le rare Doc a coinvolgere due regioni, la Liguria e la Toscana, e questo non manca di alimentare una serie di quesiti. Dall’inevitabile confronto con quello sardo della Gallura, a una controversa primogenitura delle uve – originarie della Liguria e di qui in Sardegna – fino agli esiti finali che, solo in apparenza, risultano confinanti.

Il Vermentino rientra nel novero di quei vitigni nomadi, il cui destino muove dal Medio Oriente alla Grecia e da qui fino alle coste liguri. Poi l’intrigo degli scambi e la rete di traffici, attivissimi in età romana, lo hanno portato prima in Corsica, e solo secoli dopo, in Sardegna. Gli storici dell’enologia sono concordi su questo iter, ma gli isolani continuano ad invertire la rotta, direzione Sardegna, Corsica, Liguria.

Primati a parte, i due vini pur avendo la medesima matrice, hanno fatalmente caratteri diversi. Appena più strutturato il Vermentino sardo, favorito dal clima caldo della Gallura, più ricco e aperto all’eleganza dei suoi sentori, quello ligure. Dei diciassette comuni che rientrano nei confini del Disciplinare, ben quattordici appartengono alla provincia di La Spezia. L’areale più vocato è quello compreso nel territorio alla sinistra della Magra.

E gli altri vitigni autoctoni? Vanno ricercati fra l’Appennino e le Alpi Apuane e danno vini di particolare morbidezza e dal tipico profumo di frutti di bosco. Ma si tratta in genere d’impianti piuttosto modesti, fra i quali spiccano il Ciliegiolo, il Pollera e l’Albarola, mentre un posto d’onore spetta al Rossese, o Ruzzese, secondo l’originaria denominazione.

Il vitigno è allevato in sette comuni nel Ponente Ligure, più esattamente in Val Nervia, ed è stato oggetto di una lunga ricerca del CNR di Torino. Le conclusioni danno il Rossese geneticamente identico al francese Tibouren. La provenienza, invece, andrebbe ricondotta al Medio Oriente se non alla Grecia, e di qui al porto di Marsiglia. Uva piuttosto delicata, molto sensibile alle varie patologie, offre una produzione modesta e incostante. Come per gran parte dei vini liguri, gli impianti del Rossese sono disposti a terrazza (la cosiddetta “fascia”), allo scopo di ottenere tratti pianeggianti anche nelle zone più ripide. I muri che sostengono i terrazzamenti (maixei), sono costruiti a secco, come già in Valtellina e in Costa d’Amalfi.

Il Rossese è coltivato in prevalenza ad alberello e vanta la presenza di numerose piante che hanno superato il secolo. Doc dal ’72 con la denominazione Dolceacqua, è un Rosso dal colore rubino, che si fa granato se invecchiato, odore intenso e vinoso, sapore morbido e aromatico.

Altra uva antica è il Pigato della Riviera di Ponente. Piuttosto famoso quello di Albenga, che nasce forse da un vitigno di origine greca, giunto nel Medioevo ad opera di una di quelle colonie genovesi, così diffuse sulle coste dell’Egeo. Tuttavia il vitigno, con tanta storia alle spalle, darà i primi frutti solo a partire dall’Ottocento, e il vino sarà venduto a trecento lire la bottiglia ancora a metà del secolo scorso. Il vino è di colore pallido, trasparente, con venature verdognole, se prodotto in collina; dorato, brillante e vivace, se esposto all’azione iodica e salmastra del mare.

A parte il celebrato Sciacchetrà, le Cinque Terre (Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Rio Maggiore) producono Bianchi da vari uvaggi. Vi concorrono in prevalenza i classici Bosco, Albarola (ovvero Bianchetta) e il Vermentino, che danno vini abbastanza secchi, di medio corpo, buona freschezza e particolare salinità. Se il Vermentino è il Bianco più diffuso, per i Rossi il primato spetta al Rossese. Restano il Dolcetto, qui detto Ormeasco - che fa da base a uvaggi con Ciliegiolo, Sangiovese e Barbera – e la serie di Moscati, dal Passito ai vini frizzanti.

La Liguria ha, per la natura del suo territorio, una scarsa vocazione agricola. Per cui la vite, al pari dell’ulivo, costituisce quasi un’eccezione. Di qui il modesto numero delle cantine, specie se viste in rapporto ad altre regioni. Un parametro che è di certo legato sia all’estensione del territorio che all’indice di produzione del vino. Così la Liguria può contare su meno di cinquanta aziende, rispetto non dico alla Toscana (oltre seicento), ma anche di piccole regioni come l’Umbria, circa novanta.

In cambio, il vino si esaurisce quasi del tutto sul territorio, ed è fra i meno esportati. Si aggiunga che la ridotta disponibilità dei terreni ha portato a un diffuso frazionamento della proprietà, due elementi che hanno pesato non poco sulla nascita di grosse cantine. Eppure, a dispetto di questa modesta presenza, alcuni suoi vini – dallo Sciacchetrà al Rossese al Golfo del Tigullio – si sono imposti sul mercato, grazie soprattutto alla loro capacità d’interpretare appieno i caratteri del territorio. Questo a non tener conto del forte richiamo turistico della Riviera di Levante, a cominciare da Portofino.

E’ stata insomma la loro spiccata identità a costruire la fortuna di questi vini. Ai quali non è mancato il conforto della grande poesia (si pensi a Montale), o a quella di scrittori come Italo Calvino, che pur nato a pochi chilometri da L’Avana, ha elevato San Remo a sua patria. Così i vini della Liguria devono un po’ del loro prestigio e della loro notorietà anche alla letteratura.

Due sole citazioni. Calvino: “Tra i romanzi come tra i vini, ci sono quelli che viaggiano bene e quelli che viaggiano male”. (Una cosa è infatti bere un vino nella sua località di produzione e altra cosa è berlo a migliaia di chilometri). Montale: “L’uomo è come il vino: non tutti invecchiando migliorano, alcuni inacidiscono”.

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