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Olive in tavola

di Enzo Gambin

Verdi o nere, allungate o tondeggiante, con la polpa saporita e croccante, ecco come erano gradite le olive nell’antica Grecia, che declamava:

“Albero amico che da se rinasce,

terrore delle lance nemiche;

l’olivo di glauca foglia che nutre i nostri figli

e in questa terra cresce in gran copia.”

“Edipo a Colono” - Sofocle, IV sec a.C.-

Archestrato di Gela, poeta siceliota del III a.C, ‛nella sua opera “Ηδυπάϑεια” (Ivupaeia) “I piaceri del Buongustaio”, o “Frammenti della gastronomia”, consigliava che le olive da porre in salamoia dovevano essere colte mature e leggermente avvizzite, “Grinze e all’alber mature abbi le olive”, ed erano chiamate “κολυμβάω” (colymbáo), dal significato di “venire a galla”.

I Romani alle olive in salamoia diedero un nome quasi simile, “colymbadas”, con il senso di “le affiorate”, perché emergevano dal liquido di composta.

Nel preparare le “colymbadas” i Romani crearono anche l’”ĕpĭtȳrum”, una salsa di olive scelte per lo più tra le “orcite” e le “pausiane”, che erano sminuzzate e condite con olio, sale e aromi, intingolo che ora chiamiamo con il francesismo “pâté”.

Catone, 234 a.C. - 149 a.C., nel suo libro di prosa latina “Liber de agricultura”, dava consigli e ricette su come confezionare le “colymbadas”: “Ecco come vanno condite le olive verdi: prima che diventino nere, si pestino e si buttino in acqua. L’acqua si cambi spesso. Poi quando saranno macerate abbastanza, si scolino pressandole, si mettano in aceto e si aggiunga dell’olio e mezza libra di sale ogni moggio di olive. A parte, si conservino in aceto finocchio e lentisco: poi se si vogliono mescolare insieme si adoperino in fretta. Si calchino in un orciolo. Quando se ne vuole si vadano a prendere con le mani asciutte. .. Le olive verdi che vorrai adoperare subito dopo la vendemmia, condiscile così: metti mosto e aceto in parti uguali. Per il rimanente condiscile come detto sopra.”

Catone insegnava anche: “Per fare l’ĕpĭtȳrum verde, nero o di colore vario fallo così: togli i noccioli a olive verdi, nere o di colore vario, condisci nel modo che segue: pestale, metteci olio e aceto, coriandolo, comino, finocchio, ruta, menta. Riponi in orciolo: sopra ci sia l’olio. Così sono pronte per l’uso.”

Varrone l’agronomo, 116 a.C. 27 a.C., al cap. 58 del Primo libro di “De Re rustica”, riportava: “L’oliva è come l’uva, giunge nell’azienda per la stessa strada, ma l’una è scelta come cibo, che unge il corpo, dentro e fuori, l’altra per estrarne una bevanda alcolica. Questa oliva segue il padrone anche quando va alle terme.”

Lo scrittore e politico romano Petronio Arbitro, 27 – 66, nella “Cena di Trimalcione” raccontava come le olive fossero sempre presenti sulla tavola: “….Fu servito un antipasto di gran classe, che tutti ormai erano a tavola, all’infuori di lui, Trimalcione, al quale in nuova usanza era riservato il primo posto. Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra ………. che fecero ancora girare dentro un bacino delle olive in salamoia, con certi maleducati che arrivarono a pescarne tre manciate. ….” (Satyricon).

Nei secoli successivi le ricette per la conservazione delle olive si diversificarono quasi in ogni regione, furono aggiunte spezie e aromi.

Oramai nel Basso Impero romano non si usava più il termine “colymbadas” sostituito da “salemoria” o “salmuria”, , da “sal”, sale, e “muria”, sale pestato e sciolto, ecco perché ora usiamo il sostantivo salamoia.

Con la “muria” si ottenevano anche le olive che si conservavano dopo essere state asciugate e poi poste sotto sale.

Piero Vettori, 1499 –1585, scrittore fiorentino nel suo sua opera “Trattato delle lodi et della coltivazione degli ulivi” ci ha trasmesso: “ …. Di queste ulive … dirò un po’ più a dilungo del diletto che elle porgono alle tavole, che questo ancora non è un solo; conciòssia chè l’uliva ancor bianca o verde, che noi la vogliam chiamare, s’acconcia e indolcisce, e poi nera e matura si mette innanzi a chi siede a tavola, ma sparsovi prima su un poco d’olio e di sale, perché altrimenti riuscirebbono al gusto troppo amare: onde io credo esser nato quel proverbio de Greci: l’ulive aver bisogno dell’olio; che pare strano, uscendo l’olio di loro. Quelle ancora verdi si mangiano in due modi, o poste altrui innanzi intere co’ lor noccioli, ovvero o prima, cavatone il nocciolo, e come si dice, acciaccate. Queste taligli antichi, perché elle fossero più gentili alla bocca, tenevano in un vaso, dentrovi foglie di lentisco, o di qualche altra erba odorifera; oggi usano molti serbarle nelle foglie di limone o di cedro, le quali danno loro ancora più gentil odore. “

Durante il Rinascimento tanti ritratti di “Nature morte” riportavano piatti d’argento, con uva, olive e limoni.

Nel Piceno i monaci della Congregazione Olivetana, Congregatio Sanctae Mariae Montis Oliveti, eseguivano la concia delle olive in maniera molto organizzata, a testimonianza di una ormai diffusa attività di preparazione delle olive da tavola, “ ….. Le prime notizie circa la farcitura dell’oliva ascolana risalgono al 1600 periodo in cui queste una volta denocciolate, venivano riempite di erbe (olive giudee).”

Bongioanni Grattarolo, 1530 – 1599, nella sua “Historia della riviera di Salò”, riportava la varietà “Compostino” per “quelle buone olive che si confettano in salamoia, cosí onfacine e verdi, come mature e nere”.

In effetti la produzione e il commercio delle olive da tavola era prerogativa un po’ di tutte le produzioni olivicole d’Italia, a Verona l’industria della conservazione delle olive aveva costituito un settore di rilievo, il veronese Luigi Venturi, autore della memoria “La conciatura o confezione delle ulive”, presentata alla all’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere nel 1835, affermava: “La conciatura delle ulive --- ebbe vanto, al confronto di tante altre città che tentarono di imitarla, di godere sempre la preminenza di questo piccolo ramo del commercio”.

Nel tempo, per la produzione di olive da tavola, sono state selezionate diverse varietà di olivi, che consideravano il colore, il grado di maturazione, le dimensione del frutto, la forma, il rapporto polpa/nòcciolo, il sapore, la consistenza e la facilità di distacco dal nòcciolo, alcune delle migliori olive hanno avuto nella denominazione appellativi che ne sottolineano le qualità edonistiche: “grossa”, “dolce”, “bella”, e, in alcuni casi, aggettivi come “gentile” o “tonda”.

Un’attività questa che ha permesso, già alla fine del Settecento, d’ottenere olive di maggiori dimensioni, dando così la possibilità, tanto erano grosse, di porre delle farciture di carni nel loro interno, come le Olive Ascolane di oggi.

Di olive da tavola s’interessò anche Pellegrino Artusi, 1820 – 1911, nella sua opera “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, proponendo una ricetta per le “Olive in salamoia”: “Ci saranno forse metodi più recenti e migliori per fare le olive in salamoia; ma quello che qui vi offro è praticato in Romagna con ottimo risultato. …. “

Sino alla fine della Seconda guerra mondiale la produzione e il commercio delle olive da tavola, pur rappresentando un’importante attività, era però data da produzioni manuali e confezioni artigianali.

Negli anni Cinquanta, con le numerose innovazioni industriali, date prima dal tappo twist off, poi la pastorizzazione, la denocciolatura, l’utilizzo della busta in plastica come contenitore, il consumo delle olive da tavola ebbe un notevole impulso.

Due industrie italiane si distinsero nel lanciare lo olive in salamoia e sottolio, la “Polli 1872”, che, negli anni Cinquanta, iniziò una produzione industriale, e la “Saclà”, che, nel 1966, realizzò anche uno spot per “Carosello”, che contribuì in modo determinante alla diffusione dell’oliva in salamoia, con il memorabile il jingle televisivo, allegro e divertente, che recitava: “Olivolì, Olivolà, Olivolì, Olive Saclà!”.

Il successo non tardò ad arrivare, dagli anni Ottanta le olive entrarono sempre più come spuntini, stuzzichini da aperitivo, addirittura ora sostituiscono pasti principali, on-the-go come snack.

Cinque varietà di olive da mensa italiane hanno ricevuto dall’Unione Europea il marchio di certificazione DOP: la DOP Nocellara del Belice, la DOP Bella della Daunia ottenuta dalla varietà di olivo Bella di Cerignol, la DOP Ascolana del Piceno di varietà Ascolana tenera, la DOP Oliva di Gaeta di varietà Itrana e la DOP Termite di Bitetto.

Le olive sono entrate anche come soggetto ispiratore nel gruppo musicale tutto veronese “Ancher Ancher” con il brano “Oliva” dell’album “Verdelegno”, una proposta di testi e musiche che sta il tra il post-rock islandese e il rock statunitense, una musica italiana che non ora esiste, ma con “Oliva” si stanno ponendo le basi:

…….

sfilano giorni tra ulivi

Aprile diciassette regali in uno

la simmetria dei tuoi nei

comincio ad amare le olive nere

nasce un nodo che, perché piccolo,

non sembra strozzarci

……

L’oliva non è, però, solo per l’uomo, nella lirica di Giovanni Pascoli, 1855 - 1912 , “La canzone dell’ulivo” tra le doti della pianta d’olivo vi è la resistenza al tempo e alle intemperie, il senso di pace e di serenità e l’utilità del suo frutto per l’uomo e per gli uccelli:

………..

II l’ulivo che a gli uomini appresti

la bacca ch’è cibo e ch’è luce,

gremita, che alcuna ne resti

pel tordo sassello;

…………

L’ulivo che agli uomini fornisci la bacca, ch’è cibo e ch’è luce, è pure mangiata dal tordo sassello, un uccelletto che ha il dorso di un colore bruno-olivastro, quasi a confondersi con la pianta stessa.

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