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Un po’ di storia della pizza

di Nino D’Antonio

Per oltre un secolo, non ha avuto casa. E fino ai primi dell’Ottocento è stata ospite della strada, dei vicoli, degli spiazzi, dei mercati, delle banchine del porto. L’uomo – la tipica stufa di rame sul capo e la voce roca e tirata: ’E ttengo caure, caure ‘e ppizze – girava dall’alba a notte alta, con tante puntate al piccolo locale dove venivano preparate le pizze, a mano a mano che la scorta si esauriva. Due ruoli ben distinti: chi faceva le pizze e chi le vendeva.

Nessun legame, al più un rapporto fiduciario ogni qualvolta si affidava la stufa ad un nuovo venditore. Il pizzaiolo aveva buone braccia, molto mestiere e la forza di stare in piedi circa venti ore al giorno (la preparazione della pasta è lunga e si faceva di notte); il venditore, gambe da maratoneta e fiato da vendere.

Il cliente comprava la pizza e la mangiava in piedi, e il venditore profittava per avviare quattro chiacchiere. In apparenza, era solo un modo per concedersi qualche minuto di distensione, e invece aveva un preciso scopo: intrattenere quanto più possibile il consumatore, in modo che la scena richiamasse qualcun altro e magari un altro ancora. Quel profumo di olio e di basilico e quei morsi così avidi erano una tentazione non facile da vincere.

Poi, questo cibo nato dalla fantasia e dalla miseria, si accasò. E a fianco allo stesso angusto locale, dove le pizze venivano lavorate e infornate, fu organizzato alla meglio uno spazio con tavoli e panche. Non era ancora la pizzeria, ma siamo a buon punto. Manca il classico banco di marmo e il forno a cupola, e soprattutto i clienti non hanno modo di assistere alla nascita della pizza, che continua a essere preparata nel locale attiguo. Quando questo avverrà, potremo iscrivere all’anagrafe anche la pizzeria.

Ma dove è nata questa pizza, e quando? In fondo, è un po’ come chiedersi quando è nato il pane, o almeno chi sono i suoi progenitori. Ed eccoci allora alla stiacciata, un impasto di acqua e farina, non lievitato, e cotto tra…

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