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Il Granchio Blu: dai fondali marini allo zodiaco

di Enzo Gambin

Protagonisti dell’estate 2023 sono stati i granchi blu; giunti nei mari italiani dalla sponda occidentale dell’oceano Atlantico, hanno invaso il mar Mediterraneo e sono diventati un problema ecologico ed economico.

Il motivo? Si cibano di tutto: vongole, cozze, ostriche e negli allevamenti ittici fanno razzia di pesci, determinando il pericolo di riduzione o eliminazione di specie marine autoctone.

Come nei “bestiari medievali” si è andati per analogia e si è creata una similitudine tra questa specie di crostacei e il “cancro”, per la loro capacità d’infiltrarsi e crescere in maniera non controllata, alterando il funzionamento di un ambiente e non dando la possibilità di un suo adattamento al nuovo habitat. Non è stata però un’idea moderna.

Già Aristofane, 450–385 a.C., nelle sue “Le Commedie” lo diceva: «Mai otterrai che il granchio cammini diritto», ossia non puoi cambiare la natura delle cose, il granchio blu mangerà sempre quello che trova.

Poi vi è che già la parola “granchio” significa “cancro”, in quanto è proveniente dal latino “cancer” che, a sua volta, si rifà al greco “καρκινος”, karkínos, nome usato fin dai tempi di Ippocrate, 460-370 a.C., il padre della medicina, che lo usava per indicare alcuni tipi di tumori, i carcinomi, per la somiglianza tra le lesioni della malattia e la forma del granchio.

Aulo Cornelio Celso, 25 a.C.-45 d.C., nella sua opera “De Medicina”, il primo trattato completo di scienza medica in latino, riprese il termine greco “karkínos” per indicare un’alterazione di un organo, che si manifestava con un aumento del suo volume.

Lo stesso medico Galeno ribadiva «Abbiamo visto spesso tumori al seno assomigliare molto a un granchio».

Questa analogia è sopravvissuto fino ai nostri giorni, tanto da sviluppare i termini “cancerogeno” e “carcinologia”.

Il granchio però non poteva essere solo associato a una parte dolorosa della natura, la malattia, così troviamo che i Sumeri indicavano la posizione del Sole al solstizio d’estate con il nome di “Al.Lul”, che significava “granchio” e per i Mesopotamici era il cancello attraverso il quale le anime passavamo per discendere sulla terra ed incarnarsi.

Gli Egiziani univano la costellazione del Cancro al dio dell’alba Khepre, simbolo della resurrezione.

In Grecia il mito del Cancro è legata alla storia di Eracle, Ercole per i Romani, il figlio illegittimo di Zeus, che dovette fronteggiare l’ira di Era, la moglie di Zeus, tra cui una condanna a compiere le famose dodici fatiche.

Proprio nella sua seconda fatica, quella di abbattere l’Idra, un terribile mostro che abitava la palude di Lerna, città dell’Argolide, il Cancro/Granchio fa la sua comparsa.

L’Idra era un serpente dalle tante teste che, se tagliate, ricrescevano duplicate.

Ovidio, 43 a.C.-18 d.C., nelle sue “Metamorsi” (IX, 70-72) fa raccontare ad Ercole l’impresa:

Quello si rigenerava dalle sue stesse ferite, e delle cento teste che aveva,

non ce n’era una che si potesse mozzare senza che sul collo,

più sano di prima, due gliene succedessero.

Il combattimento fu molto faticoso; per intenzione di Era, durante la battaglia, emerse dalla palude anche un grande granchio che addentò con le sue chele i piedi di Eracle, ma questo lo schiacciò sotto il tallone uccidendolo.

Apollodoro di Atene, 180 a.C.–120- a.C., nel suo trattato “Sugli Dei” (Biblioteca, II, 5, 2) narrava:

“Un granchio enorme venne in aiuto dell’Idra mordendo il piede di Eracle, ma Eracle lo uccise.”

Secondo il mito, Era, grata per il coraggioso ma infruttuoso sforzo del Concro/Granchio, lo collocò nel cielo creando nella fascia dello Zodiaco la costellazione del Cancro.

Seneca, 4 a.C.-65 d.C., all’inizio della sua tragedia “Ercole sul Monte Eta”, in cui l’eroe si lamentava col padre Giove perché non aveva ancora mantenuto la promessa della sua assunzione in Cielo, fece dire:

Oh, che grandi mostri ho abbattuto che nessun re

mi ha ordinato di abbattere! Mi ha incalzato il valore

peggiore di Giunone. Ma a che giova avere reso impavido

il genere umano? Gli dèi non hanno pace:

la terra tutta ripulita vede nel cielo

qualunque cosa abbia temuto: Giunone ha trasferito le belve.

Il cancro abbattuto gira intorno alla zona torrida

e si volge come astro della Libia e ne matura le messi.

Altra interessante leggenda relativa alla costellazione del Cancro riguarda la parte che indicano i suoi occhi, formata da due stelle gli Asellus, letteralmente asinello, conosciuti come Asino del Nord e Asino del Sud.

La storia ci riporta durante la battaglia tra gli Dei ed i Titani, la Titanomachia, una guerra della mitologia greca, combattuta da Zeus e gli altri dei dell’Olimpo contro la generazione delle divinità precedenti, quella di Crono e dei Titani, figli di Gea.

La guerra durò dieci grandi anni e si concluse con la vittoria degli dei dell’Olimpo, grazie all’aiuto di Dioniso ed Efesto, che giunsero nel campo di battaglia a cavallo di asini, che con i loro ragli spaventarono talmente i Titani che fuggirono terrorizzati.

A premiare e ricordare quanto gli asini fossero stati fondamentali nell’esito della guerra, Dionisio decise di farli salire in cielo e porli nella costellazione del Cancro, vicino alla nebulosa chiamata Mangiatoia, dove potevano rifocillarsi. Il pianeta che governa il Cancro è la Luna, simbolo di sensibilità e femminilità e fertilità, ponendolo in stretta relazione con il mito di Selene, la Luna dei greci, ed Endimione.

Selene, che rappresenta la Luna piena, mentre percorreva il cielo sul suo carro trainato da quattro cavalli bianchi, in prossimità di una grotta del monte Latmo, vide un bellissimo giovane addormentato, Endimione, e si sentì irresistibilmente attratta.

Selene entrò nella grotta, si sdraiò al suo fianco e lo baciò sugli occhi, iniziando una storia d’amore e di travolgente passione.

Ogni notte Selene andava a trovare il suo amante e dalla loro unione nacquero cinquanta figlie.

Selene, per evitare la morte di Endimione, si rivolse a Giove e ottenne che il suo amato avrebbe vissuto immerso in un sonno eterno, ma con gli occhi aperti, così da continuare a vedersi per sempre. Racconto che fece dire a Cesare Pavese, 1908 –1950, nella sua opera “La belva - Dialoghi con Leucò”: «Ciascuno ha il sonno che gli tocca, Endimione. E il tuo sonno è infinito di voci e di grida, e di terra, di cielo, di giorni. Dormilo con coraggio, non avete altro bene. La solitudine selvaggia è tua. Amala come lei l’ama. E adesso, Endimione, io ti lascio. La vedrai questa notte. »

Il granchio piacque anche il poeta satirico romano Carlo Alberto Salustri, conosciuto come Trilussa, 1871 –1950, che, prendendo un’espressione idiomatica della lingua italiana rimò “Cortigiani”

Ho preso un granchio a secco, grosso assai! -

strillò un Re che pescava in riva ar mare.

Er Maggiordomo disse: - Ma je pare!

Un Re, li granchi, nu’ li pija mai!

Allora - fece er Granchio fra de sé -

diranno che so’ io ch’ho preso un Re!

In effetti il granchio è entrato anche nei modi di dire più comuni con l’espressione “ho preso un granchio” per indicare un errore o il raggiungimento di un risultato inferiore a quello sperato.

L’origini di questa espressione deriva dall’attività di pesca, probabilmente da quella sportiva, quando all’amo abbocca un granchio anziché un bel pesce e, dallo sconforto, nacque l’origine della frase. Nella lingua italiana abbiamo ancora sensi figurati riferiti ai granchi, questa volta rivolti a una specifica specie, i paguri, con il modo di dire: “Hai pigliato un granciporro!”, derivante dal latino “cancer”, granchio, e “pagurus”, paguro.

Il primo a fare uso di questa frese fu lo scrittore Francesco Berni, 1497-1535, nel Capitolo del prete da Povigliano - A Messer Ieronimo Fracastoro- 1532:

……………….

Notate qui ch’io pongo questo essempio

levato dall’Eneïda di peso;

e non vorrei però parer un scempio,

perché m’han detto che Vergilio ha preso

un granciporro nel verso d’Omero,

il qual non ha, con riverenza, inteso;

e certo è strana cosa, s’egli è vero,

che di due dizzïoni una facesse.

Ma lasciam ire e torniam dov’io ero.

……………….

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