Salta al contenuto principale
loading

La noce, frutto del bene e del male

di Enzo Gambin

Quando si parla del noce, s’intende un albero maestoso e bello e, se è preceduto dell’articolo femminile “la”, la noce, il riferimento è il suo frutto. Sino alla seconda metà del Milleduecento, però, tutto questo aveva un significato diverso, la “noce”, che deriva dal latino “nŭce”, indicava il dischetto posto sul fusto di una balestra che teneva tesa la corda.

Lo dice chiaramente Dante Alighieri, 1265 . 1321, nel II canto del Paradiso, al verso numero 24: “… Beatrice in suso, e io in lei guardava; e forse in tanto in quanto un quadrel posa e vola e da la noce si dischiava, …” “Beatrice guardava in alto, e io guardavo in lei; e quasi nello stesso tempo in cui una freccia si stacca dall’incavo (da la noce) della balestra, vola e colpisce il bersaglio”.

Nel tempo le parole cambiano di significato, un esempio è il termine “pietanza”, ora definisce la seconda portata di un pranzo, un tempo indicava quell’usanza dei frati di aggiungere alla minestra, che era distribuita ai poveri, anche un pezzetto di lardo, “per pietanza”, “per pietà”.

Così, con il mutare della società, anche il termine “noce” ha avuto significati diversi.

Nell’antica Grecia il noce era indicato come “κᾰρύα”, “karya,” ed era collegato a un concetto di preziosità, tanche che questo nome potrebbe aver contribuito a formare il termine “caro”, che ora indica l’amore come legame affettivo e la preziosità in termini di valore economico.

Esopo, VI sec. a.C., in una delle sue favole morali prese il noce come simbolo di chi si duole per un torto che subito per aver fatto del bene: “Un noce cresciuto presso una strada e colpito con sassi da coloro che passavano, lamentandosi tra sé disse: Sono proprio sventurato io che ogni anno produco insulti e sofferenze per me stesso”.

Nel tempo a “κᾰρύα”, “karya”, si è unito il termine “βασιλική”, “basilike”, “κᾰρύα βασιλική”, che letteralmente significa “noce regale” o “noce reale”, perché si ritenne che questa pianta fosse stata portata in Grecia da re persiani.

I Romani, quando introdussero in Italia dalla Grecia quest’albero, probabilmente nel VII e il V secolo a.C., come affermano Columella, 4 -70, nel suo libro “De arbori bus” e Plinio il Vecchio, 23 – 79, nella sua “Naturalia Historia” ne mantennero il concetto di regalità e lo chiamarono “Jovis glans”, cioè “ghianda di Giove”, che era il re degli dei.

Fu così che anche il biologo Lineo, 1707 – 1778, universalmente considerato il padre della classificazione scientifica moderna e della nomenclatura binomiale degli organismi viventi, quando impose il nome scientifico all’albero del noce lo indicò come “Juglans regia L.”, “Piante regale”.

Nella mitologia greca il noce rappresentò delle figure femminili, con narrazioni investite di sacralità, racconti che iniziarono in Laconia, una delle regioni più affascinanti della Grecia, dove risiedeva il re Dione, che aveva sposato Anfitea ed ebbe tre figlie: Caria, Orfe e Lico.

Un giorno nel palazzo di Dione arrivò Dioniso, il dio dell’ebbrezza, che fu accolto con molti onori, soprattutto dalle tre principessine. Dioniso s’innamora di una di queste, Caria, e fu ricambiato. Le altre due sorelle, Orfe e Lico, invidiose, calunniarono Dioniso, che s’infuriò molto e per punirle le fece prima impazzire e poi le tramutò in fredde rocce. Caria, affezionatissima alle sorelle, morì di crepacuore. Dioniso non poté riportala in vita, così la trasformò in un albero di noce affinché continuasse a dare frutti buoni e fecondi.

A dare l’annuncio ai Laconi della morte delle tre principesse fu Artemide, dea protettrice delle giovani. Il popolo eresse un tempio ad Artemide e, a ricordo delle principesse Orfe, Lico e Caria, ponendo all’ingresso tre statue di legno di noce, che chiamarono “Cariatidi”.

Dioniso pensò, invece, di memore il ricordo di Caria con cerimonie notturne, che dovevano avvenire sotto un albero di noce con la partecipazione di sole donne, che si davano a danze sfrenatamente. Questi incontri dovevano rimanere segreti e misteriosi, così furono chiamati Misteri Dionisici: «Gli iniziati dapprima si raccolgono insieme e si spingono tra di loro in tumulto e gridano, quando però si eseguono e si mostrano i riti sacri, allora si fanno attenti, timorosi e in silenzio... Chi è giunto all’interno e ha visto una grande luce, come quando si schiude un santuario, si comporta diversamente, tace e rimane stupefatto...» Plutarco, 46 – 125.

Con l’evento del Cristianesimo queste cerimonie furono considerate come riti peccaminosi e le partecipanti furono indicate come “streghe”, nome che deriverebbe dal latino “striga” e “stryx” e indicava degli uccelli notturni.

In effetti, la credenza popolare voleva che le streghe volassero con l’oscurità sopra una scopa, simbolo femminile del focolaio domestico, proprio come degli uccelli notturni e che, nella notte di San Giovanni, tra il 23 e il 24 Giugno, in corrispondenza del Solstizio d’Estate, arrivavano e si riunivano sotto il grande albero di noce che cresceva vicino alla città di Benevento.

Documenti storici affermano che esisteva davvero questo grande albero di noce e che il vescovo di Benevento, Barbato, 602 – 682, lo fece tagliare perché considerato l’albero di satana.

Il noce ricrebbe e le streghe e sino alla fine dei Seicento si credette all’arrivo delle streghe le quali, prima di librarsi nel cielo notturno, si cospargevano il corpo con un unguento recitando la formula magica:

[unguento unguento

mandame alla noce de Benevento

supra acqua et supra vento

et supra omne maltempo]

Questo diede spunto a Isodoro di Siviglia, 560 – 636, una delle figure più rilevanti della cultura medievale, di unire il vocabolo “tardo” latino di “nux”, che stava prendendo il significato di “noce” con il verbo “nocere”, “nuocere”e a Pietro de’ Crescenzi, 1233 – 1320, agronomo di scrivere nel suo “De Agricultura”: “Il noce è detto perché nuoce, imperocché la sua ombra è nocevole agli altri arbori”.

A onor del vero, le radici del noce sono in grado di emettere un alcaloide, la iuglandina, che può essere dannosa ad altre piante tanto che Castor Durante da Gualdo, 1529 – 1590, medico umbro nel suo “Tesoro della sanità” scriveva “L’ombra della pianta è nociva, ché manda fuori un alito cattivo, che aggrava la testa e offende tutti quelli che vi dormono sotto, ché quell’odore penetra subito nel cervello e per questo che si suol piantare appresso le strade”.

Rispetto a queste forti credenze popolari le noci avevano importanti impieghi in cucina, come riporta Bonvesin della Riva, 1250 – 1313, scrittore e poeta lombardo quando nel suo “De Magnalibus Mediolani” scriveva: “ .. Noci in abbondanza incredibile, che i cittadini, cui questo piace, usano mangiare per l’intero corso dell’anno alla fine di ogni pasto. Le triturano anche e le impastano con uova e cacio e pepe, facendone un ripieno per le carni della stagione invernale. Dalle noci ricavano pure l’olio, che da noi viene usato largamente”.

Tra il Duecento e il Trecento nasceva anche il Nucato, l’antenato del croccante, prodotto con le noci, come riporta “Il libro della cucina del XIV secolo”: “Dele mele bullito co le noci, detto nucato. Togli mele bullito e schiumato, con le noci unpoco peste e spezie cotte insieme: bagnati la palma de la mano coll’acqu et estendilo: lassa freddare a dà a mangiare. E puoi ponere mandole e avellane in luogo di noci”.

Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina, 1421 –1481, gastronomo e umanista nel suo trattato “De honesta voluptate et valetudine”, apre il terzo Libro parlando di noci “ ….. Plinio .. dice infatti che le esalazioni velenose dell’albero stesso e delle sue foglie penetrano nel cervello, ma i gherigli si prestano ad essere mangiati. Le noci fresche sono comunque dannose a chi è affetto da tosse. Le stesse, mangiate in anticipo con ruta, fichi e sale, proteggono mirabilmente – e ne fa fede Mitrida … “

Nella sua ambivalenza di frutto del bene o del male, la noce è entrata in un dipinto di Giuseppe Arcimboldo, 1527 – 1593, “l’Ortolano”, vi si raffigurano degli ortaggi in un vaso e si vede il mallo di una noce spezzata, segno della fertilità della terra. Questo quadro, se si osserva capovolto, si distingue il volto dell’Ortolano, che ha per occhio una noce, a significare che la realtà può essere percepita da come si considera.

Il noce è dualità di mistero e di oggettività anche per la poesia di Giovanni Pascoli, 1855 – 1912:

Il Noce

…..

La grande noce è piena

di fiori

……..

la grande noce

in cielo è tramontata.

...

È fiaba o verità?

…..

q

Vuoi ricevere la rivista Taste Vin?

Scrivici