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Il sentimento del tempo nella pittura di Ennio Finzi

di Michele Beraldo

Liberatosi giovanissimo dall’idea che in pittura valesse il principio della correttezza e in disaccordo perfino con se stesso, il lavoro di Finzi è sempre stato nelle sue forme ambivalente e contraddittorio. Per tutta la sua lunga vita artistica, e sorprendentemente ancora oggi, egli si è sempre avvalso di due modelli espressivi: l’uno costruttivo, finemente strutturato e idealmente tecnomorfo, capace di cogliere i segnali della rapida espansione tecnologica e la metafora di un esistente perennemente in moto, l’altro più sensibile e vocato alla processualità pittorica, sia in termini di espansività gestuale, potendo avvalersi delle precedenti esperienze informali, sia con modalità più controllate, dando vita alle “architetture del colore” e infine nelle conseguenti e illimitate declinazioni dei “versi del colore”.

Recentemente, l’attesa per una risoluzione ancora una volta obnubilata del colore, che andasse oltre il pregnante significato simbolico della serie dei “neri”, lo si ritrova nei lavori intitolati “il corpo della pittura” e “lo sguardo indiscreto”. Pur essendo ancora vivo il desiderio di contraddizione, di smentita e di opposizione a se stesso, attraverso questi quadri Finzi si pone in relazione con il “sentimento del tempo”, con la coscienza offuscata dell’oggi. Se negli anni cinquanta i segni della crisi provenivano dall’interiorità dell’artista, dalle sue inquietudini e dalle sue incertezze, alimentando e costituendo le ragioni stesse del suo dipingere, ora invece Finzi rileva nella componente sociale i segnali di una crisi inarrestabile, così che “tutto viene espresso attraverso corporeità varie: l’organo pensante non è più il cervello ma è sceso esattamente dall’ombelico in giù”.

Finzi sembrerebbe ricusare nuovamente l’idea stessa del dipingere (“Io non credo alla pittura!”, avrebbe infatti detto da giovane) ma in realtà, anche nei lavori variamente puntellati, striati e spatolati, il colore non scompare del tutto; si presenta nella tenue distensione del suo fluire spontaneo, lieve ed evanescente; altre volte, invece, ricolma ogni dosso, infrange su ogni sporgenza e confluisce sino agli angoli più indefiniti e remoti dell’opera, in un nuovo ambito di accoglienza, in una nuova, inesplorata, spazialità del profondo.

Ed è in questo luogo, nel potenzialmente infinito spazio della pittura, che Finzi ancora oggi guarda. Lo fa nuovamente nei termini della contraddizione, dell’antinomia e del contrasto, dando voce a quel desiderio di contestazione che periodicamente lo sospinge a ribaltare i termini del proprio lavoro, a cambiare casacca (“io sono io e il contrario di me stesso”), opponendo una volta di più la pulviscolare luminosità del colore all’informe materia.

In questo transitare da un polo all’altro, in un gioco di continui sovvertimenti di campo e ribattute, emerge quindi l’ultimo ciclo dall’ambivalente titolo “Alternando lo sguardo”, al cospetto del quale, l’artista veneziano, ancora una volta, fa prevalere le ragioni della simmetria e della geometria esatta.

Nell’intermittente apparire della forma, così come nel dinamismo cangiante del colore, la luce si rivela allora quale emittente di una forza apparentemente immobile, statica, ma non per questo priva di vita. Finzi parrebbe liberarla dal fardello del “corpo” e suggerirne il suo definitivo riscatto, la sua perdurante immaterialità.

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