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Dignità a tavola

di Ulderico Bernardi

Primavera assolata, campagna desolata. Non è un proverbio dei tempi andati, ma rende bene l’idea. Specie se messo a confronto con quello vero, della nostra tradizione popolare che dice: Aprile, ogni goccia un barile. Ogni pianta aspetta golosamente l’acqua, per dare in seguito frutti abbondanti. In questi giorni ci troviamo invece in quella situazione che con linguaggio burocratico si definisce emergenza idrica.

In sostanza non piove, o comunque non abbastanza. Di conseguenza anche grandi fiumi diventano rigagnoli, e l’irrigazione si ferma. Speriamo nei mesi a venire, ma la primavera ormai è giocata. Abbiamo dalla nostra che con i tempi che corrono certe parole sono state disinnescate dalla carica dirompente dell’angoscia. Hanno smesso di fare paura.

Siccità non coincide più automaticamente con carestia, per esempio. Una volta raccolti miseri volevano dire stenti e fame, torme di questuanti campagnoli che si riversavano nelle città elemosinando un boccone di pane. Legioni di disgraziati, laceri e smunti, strappavano l’erba ai fossi per masticare qualcosa, o morivano per le strade.

Alla fine del Settecento, un gentleman inglese inventò per loro, tentando di salvarli dall’inedia, la zuppa economica. Ecco la ricetta ideata da lord Benjamin Thomson conte di Rumford: acqua, fagioli, farina gialla, cipolle, olio comune, pepe, salvia e sale. All’epoca, con 9 lire si poteva provvedere questa minestra per 75 persone.

Magari sarà stata anche gustosa, oltre che a buon mercato. Come tante altre pietanze povere d’altri tempi potrebbe forse essere riproposta oggi dai ristoratori come piatto tipico. I morti di fame di due secoli fa la trangugiavano avidamente. Ma oggi siamo nell’età delle e degli anoressici, altro che carestie.

La tempesta, la siccità, spaventano perché smagriscono i raccolti, e dunque i redditi degli agricoltori. Ma quanto al rischio di morire di stenti non se ne parla proprio. In questa parte del mondo può ancora succedere che si fatichi ad arrivare alla fine del mese per pensioni e salari all’osso. Ma quanto a riempirsi la pancia c’è sempre il modo.

Molti tirano la cinghia per vanità, per potersi esibire in costume da bagno sulle spiagge, o per essere più fichi. A supplire, in caso di raccolti scarsi, ci sono sempre le importazioni dai continenti dove si pratica l’agricoltura intensiva.

Salvo l’Africa, cattiva coscienza del mondo occidentale, che per secoli l’ha sfruttata nelle sue risorse, trasformando in vergognosa merce perfino i suoi uomini, le sue donne e i suoi bambini, razziati e venduti come schiavi. Lì la fame e la sete ci sono ancora davvero, e i fenomeni più o meno naturali, come la siccità o la desertificazione aprono nuove piaghe nel corpo sociale.

Ma in questa parte del mondo invece ci si è dimenticati dei richiami morali riguardanti l’alimentazione. Chi ricorda più tra i cristiani che i Sette vizi capitali - superbia, avarizia, lussuria, ira, invidia, accidia - comprendono anche la gola?

Non tanto per la quantità di cibo e di bevande che si ingurgitano, quanto per la ricerca maniacale di questo o quell’alimento, per l’esibizionismo e l’ostentazione nei comportamenti a tavola.

Dove si gongola per avere ordinato una bottiglia che costa uno sproposito, o una pietanza esotica che fa tanto status privilegiato. Bizzarrie antipatiche, che, per la verità, non riguardano solo uomini e donne, ma giungono perfino a coinvolgere gli innocenti animali domestici.

Circola sugli schermi televisivi uno spot, dove viene servita a un gatto molto snob una vaschetta di cibo di cui si vantano i contenuti come fosse una pietanza da gourmet. Costosa, naturalmente. Sfacciati.

I proponenti, e chi gli dà spago acquistando il prodotto in questione. Uno sfregio alla temperanza, un messaggio diseducativo diffuso sotto forma di pubblicità.

L’attenzione per le buone cose del mondo, i begli abiti, un vino eccellente, una cucina sana e saporita, un corpo curato, restano piacevolezze del vivere finché non diventano, appunto, vizio. Cioè fino a quando non vengono idolatrate. E sbattute in faccia a chi non può disporne, come tante porte che si chiudono sul muso dei poveri. Non si tratta di abolire il superfluo, ma di non farne la propria ragione di vita.

La sobrietà è una virtù che fa bene anche alla salute. Si scrive e si parla molto di etica ed economia.

Ecco, questo è un aspetto essenziale di come vanno coniugati insieme i due termini. Recuperando il senso della misura. Come nel bere un buon vino, gustandolo e rimanendo al di qua della soglia dell’ubriachezza molesta.

Come godendo della convivialità, senza per questo diventare fracassoni e disturbatori della quiete pubblica, specie nelle ore in cui i più normalmente dedicano al riposo.

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