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La tradizione dei vini Trentini

di N.D.

Un’enorme foresta di conifere e faggi. Che vista dall’alto dilaga per oltre il 70% in tutto il territorio. Per il resto, una geografia varia e contrastata, fra celebrate valli, ma piccole e strette (fa eccezione solo quella dell’Adige, che accoglie Trento e Bolzano), e le Dolomiti occidentali, i passi alpini e i laghi.

Paesaggi di sicuro fascino, che si rinnovano a ogni cambio di stagione, offrendo scenari di particolare magia. I due territori – accorpati nel ’48 in una sola regione a statuto speciale – hanno in comune i caratteri fisici (prealpini, alpini e dolomitici), ma storie ben distinte. L’Alto Adige, di stirpe germanica, è bilingue. Il Trentino ha una decisa impronta d’italianità. Entrambe terre generose per frutteti (le famose mele della Val di Non) e vigneti, sono anche fra le meno abitate d’Italia.

Il vino qui ha trascorsi antichi e riflette non poco le vicende che hanno segnato questi territori. Il Trentino con oltre novemila ettari – quasi il doppio dell’Alto Adige – vanta uve di più larga notorietà e un “mestiere” più scaltrito nel far vino. Anche se va detto che non esiste un preciso confine fra i vari vitigni, per cui le incursioni fra i due territori sono quantomai diffuse. Così delle tre Doc Alto Adige, due – Lago di Caldaro e Valdadige – appartengono anche al Trentino, il quale può contare a sua volta sul Casteller, sul Teroldego e sul Muller Thurgau. Sono vini fortemente connessi al territorio, specie i Bianchi, per quella loro tipica freschezza, dovuta alle decise escursioni termiche, che non sono estranee anche a quel particolare aroma che ci rimanda al gusto dell’uva. Un fenomeno che si riscontra, per molti aspetti, sia nei Moscati che nelle Malvasie.

Fra i Bianchi, una poltrona di prima fila spetta al Muller Thurgau Doc, colore paglierino scarico, profumo delicato, sapore fresco e secco. E’ uno dei pochi vini a recare in etichetta il nome del suo inventore, lo svizzero Hermann Muller, il quale mise insieme il Riesling Renano e il Madeleine Royale. Quest’ultimo una varietà del Silvaner, un vitigno tedesco, oggi poco diffuso in provincia di Bolzano. E’ un vino Doc, di colore giallo verdognolo, solida struttura, piacevole acidità, profumi di erbe e legno. La varietà Madeleine, piuttosto modesta, riuscirà tuttavia a stimolare l’interesse di Muller, che sulle potenzialità del vitigno non manca di condurre una lunga ricerca.

Base del blend è di certo il Riesling, un’uva assai resistente al freddo, tanto da estendersi largamente nelle valli del Reno e della Mosella, dove le forti pendenze del territorio hanno da sempre favorito una lunga esposizione delle piante ai raggi solari. Di qui l’intensità e il bouquet assai apprezzato di questi vini. Si tenga conto che gli impianti del Riesling hanno raggiunto negli anni Settanta il 30% dell’intera superficie vitata. Un primato che oggi è stato superato dal Muller Thurgau.

La maggiore produzione di Bianchi si ha nella Valle Isarco, che si sviluppa dalle sorgenti dell’omonimo fiume fino al Brennero. E’ l’area vitivinicola più a nord d’Italia, e terra privilegiata di Riesling e Lagrein. Le vigne, che quasi stringono d’assedio Bressanone, risalgono all’insediamento dei monaci Agostiniani, fondatori a metà del 1100 dell’abbazia di Novacella, allora - e a lungo - uno straordinario centro di economia e di potere.

Oggi, benché ristretto, l’insediamento può contare su 22 ettari, 5 dei quali sono dedicati proprio alla coltivazione del Silvaner, un vitigno di origine tedesca. Il Valdadige, una Doc comune alle province di Trento e Bolzano, nasce invece da un felice e ricco uvaggio per l’80% di Garganega, Trebbiano e Sangiovese, variamente integrato con Pinot Bianco, Riesling e Muller Thurgau. E’ un vino che si muove in una banda di oscillazione che risente di volta in volta del diverso rapporto fra le varie uve, anche se attinge sempre a risultati di ottima qualità.

Rimane il Nosiola, il solo vitigno autoctono a bacca bianca. Che se non ha alle spalle il retaggio del Teroldego e del San Leonardo alimenta tuttavia due vini di tutto rispetto e di consolidata tradizione: il Vin Santo e l’omonimo Nosiola. E qui scatta più di qualche differenza, che non è tanto legata alla tipologia dei vini, quanto ai terreni di allevamento, alle tecniche di vinificazione, fino al controverso genere del nome. Il quale, nella Valle dei Laghi (sono otto nel contesto alpino, e tutti di particolare suggestione) è femminile, e indica vitigno, uva e vino, mentre invece a Lavis o a Rovereto, è il Nosiola.

In entrambi i casi, si tratta di uve che hanno rischiato a lungo di scomparire (anche perché le cantine sociali le acquistavano al prezzo più basso) e che oggi coprono appena un centinaio di ettari. Eppure, è un vitigno che richiede poche cure e si adatta bene ai terreni poveri, ubicati fra i quattro e i cinquecento metri. In cambio, offre vini particolarmente longevi, secchi, gradevoli, con una punta finale di amarognolo. Per antica credenza, si ritiene che questa propensione all’invecchiamento sia legata all’Ora del Garda, quel vento che da aprile a settembre soffia puntuale dal lago, ogni pomeriggio.

Altra cosa, invece, è il Vin Santo, considerato “il Passito dei Passiti”, anche per il lungo affinamento in piccole botti, al quale viene sottoposto. E che non è mai inferiore ai sei anni, dopo l’appassimento delle uve su graticci di canne e la successiva pigiatura solo a Pasqua, al culmine della maturazione. E’ evidente che la coincidenza con i riti pasquali non è casuale, per cui il vino finisce per caricarsi di una sua sacralità, che lo rende prezioso anche al di là dei canali religiosi.

E passiamo ai Rossi. Anche in questo caso i vini hanno incerti confini. In testa abbiamo il Marzemino, un vitigno di origine veneta, se è attendibile la sua presenza fin dal Seicento, nel territorio di Bassano del Grappa. Il nome è legato al tardo latino Marzarimen, vale a dire grano di marzo, con un preciso riferimento alle ridotte dimensioni della bacca.

Il vino ha un bel colore rosso rubino e profumi fruttati. Alcolico e poco tannico, è usato in uvaggi con molti vini veneti e lombardi. Mozart lo cita nel suo Dongiovanni: “Versa il vino eccellente Marzemin”.

La Doc Lago di Caldaro ha invece come vitigno base per l’85% La Schiava, spesso in assoluta purezza. Si tratta di un’uva a tre tipologie: la Grossa, la Gentile e la Grigia, legate rispettivamente alla diversa grandezza dell’acino. Il nome trae origine dal metodo di allevamento delle viti, adottato fin dal Medioevo. E cioè quello di “schiavizzare” le viti, legandole a un sicuro supporto.

Ma viene avanzata anche un’altra ipotesi suggerita dalla pratica di una drastica potatura.

Le origini del vitigno sono di certo slave, e riconducibili alle invasioni longobarde in Trentino.

Seguono il Casteller Rosso – anch’esso uvaggio di Merlot e Schiava – e il Teroldego, Rosso e Rosato. Quest’ultimo è un vitigno a bacca nera, di antica matrice. La leggenda comincia già dal nome, per il quale non esistono documenti attendibili, al di là di un atto di compravendita sulla fine del Trecento, in cui si cita un terreno di “due brente vin teroldego”. E’ probabile che le sue origini vadano ricercate nella parlata dei trentini. E sempre la leggenda vuole che il vitigno sia arrivato quassù insieme al gelso, ad opera di popolazioni migranti, richiamate dalle terre fertili del fondovalle e dalla presenza delle acque dell’Adige.

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