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Quale futuro per la cucina Italiana?

di di Piero Paglialunga

Parafrasando il titolo dell’ultimo libro di Mario Giordano (l’Italia non è più italiana) e ricordando un recente confronto con alcuni colleghi sul futuro della cucina tradizionale nazionale, mi sono dovuto convincere che, oggi, è sempre meno attuale individuare ristoranti che “saccheggino” quell’immenso ricettario mosaico dove si intrecciano, culture, tradizioni, esperienze, dei tanti territori che rappresentano la “culla” di quel variegato puzzle della cucina tradizionale, familiare, monacale e conventuale , del nostro Paese.

Un insieme di rimembranze che neanche quel grande cultore di Pellegrino Artusi, autore dell’arcinoto volume “la scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” che, con le sue 790 ricette, raccolte con paziente passione nel giro dei lunghi anni e innumerevoli viaggi, rappresenta ancor oggi, non un pedissequo elenco di ricette, bensì l’esaltazione del piacere del mangiar bene; recuperando, magari anche riattualizzandoli, quei presidi della nostra cultura gastronomica che riescono a fare di un banale momento di necessaria alimentazione un appuntamento di gusto, ricco di spunti culturali, di manualità perdute nell’orgia delle odierne frenesie esistenziali che, tra l’altro, hanno annullato la spensieratezza della convivialità.

L’avvicendarsi di mode sempre più lontane dalle nostre abitudini e dai nostri quotidiani comportamenti, l’incapacità diffusa di cimentarsi nella realizzazione di ataviche ricette che, pur nella loro semplicità, avrebbero richiesto tempi di esecuzione non più compatibili con le dispersioni di tempi della modernità, hanno cancellato dalla memoria collettiva quel patrimonio di culture e di tradizioni che avevano dato vita anche ad una ristorazione altamente competitiva sul territorio nazionale e diffusamente imitata all’estero.

La scuola di Costigliole d’Asti e l’Università della gastronomia di Parma e Pollenzo (Cn) e, ancor prima, i periodici stage voluti dalla Martini & Rossi, fine anni ’70 e inizi anni ’80, portati avanti con la collaborazione di alcuni dei più prestigiosi chef della catena dei Ristoranti del Buon Ricordo, destinati a fornire a giovani chef di tutto il mondo le basi per cimentarsi nella preparazione di alcuni dei più rinomati piatti della nostra cucina abbinandoli correttamente ad alcuni, selezionati e rinomati prodotti enologici, rappresentano le più illuminate espressioni che hanno consentito la diffusa internazionalizzazione di quell’immenso e variegato patrimonio culinario che caratterizza la cucina italiana.

Un percorso divenuto obsoleto per l’inopinata invasione di quel processo di sconsiderata modernizzazione verso cui la ristorazione di casa nostra si è votata alla ricerca di riconoscimenti e qualifiche internazionali che appagavano più il loro “ego” che non la sostanza del loro ruolo di divulgatori di quella cultura del “mangiar bene” parte integrante di una tradizione gastronomica che non ha riscontri nel mondo.

Considerando “plebea” la realizzazione di piatti ricchi di sapidità, infatti, si esprimono, e continuano a perseverare, in ricette cervellotiche, frutto di abbinamenti talvolta inspiegabili e inconsueti, che propongono serviti in piatti che appaiono, a loro dire, artistiche realizzazioni dei diversi elementi che li compongono, nella speranza di salire nella scala del numero di “stelle” o “cappelli” che contribuirebbero a giustificare, secondo loro, la crescita esponenziale del costo del pasto piuttosto che la loro perizia professionale.

Più che innovazione, come tentano di giustificarla, la loro scelta è una vera e propria abiura di quel grande patrimonio che ormai nessuno tutela o gestisce. Il tradimento di una professionalità che affonda le proprie radici nella storia sociale dei nostri territori e che è la base di una identità affascinante che richiede tutt’ora di essere correttamente e adeguatamente diffusa oltre che applicata.

Per la stragrande maggioranza di una ristorazione che è, attualmente, ammaliata dallo “scimmiottare” principi culturali di altri, o che si beano di realizzare al meglio la invadente cucina molecolare o, ancor peggio, “sposano” i principi della cucina vegana o vegetariana o un mix di entrambe, quando non approdano a quelle cucine etniche che sono un “fusion”, nella quale si combinano elementi associati a differenti tradizioni culinarie per produrre menù o piatti complessi di culture diverse e distanti dalla nostra educazione alimentare.

Un vero e proprio “marasma” che non contribuiscono alla fidelizzazione, come accadeva, della clientela ma alla dispersione di quella cultura delle tradizioni che sono, invece, il complemento più interessante della offerta turistica italiana.

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