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L'abbinamento cibo-vino

di Nino d'Antonio

Il connubio è antico. Di quelli che nessuno metterebbe in discussione, se non per definire meglio il rapporto. Mai per negarlo. Mi riferisco a cibo e vino, un binomio che sembra naturale, per quella reciproca dipendenza che vuole il vino ideale componente per esaltare le pietanze. Perché, in mancanza, il bere è solo una pessima e dannosa abitudine.

Eppure, queste “verità” (ma lo sono, poi?) in apparenza del tutto condivise, risultano in effetti non solo piuttosto recenti, ma al centro di una serie di distinguo. Ne parlo con Riccardo Cotarella, che ancora una volta mi suggerisce spunti e considerazioni per i miei articoli. E’ una prova di amicizia che mi lusinga non poco.

Confesso che anche per me - che ho qualche confidenza con la storia del vino - porre in discussione il classico abbinamento, mi ha sorpreso parecchio. Soprattutto per le sua datazione che, al contrario di ogni credenza, risulta quantomai vicina.

A dare uno scossone a questo diffuso convincimento, è stata la lettura di un libro venuto fuori pochi anni fa, “La civiltà della forchetta”, di Giovanni Rebora, per i tipi di Laterza. Scopro così che vino e cibo camminano di pari passo solo a partire dal 1850, vale a dire a un decennio dall’Unità. Perché prima era un procedere su piste diverse, senza alcuna reciproca incursione fra i due elementi.

Ma chi si è preoccupato, con assoluta priorità, di cogliere una qualche relazione fra cibo e vino, fino a costruire quella sicura osmosi, che esalta al tempo stesso le qualità dell’uno e dell’altro? Apripista è stato il marchese Antinori con alcuni cultori della buona tavola, nelle terre di Montalcino e dei Colli senesi. Anche il Piemonte muoverà in questa direzione, auspice Cavour per i suoi tenimenti, e soprattutto la marchesa Juliette Colbert Falletti, a Barolo.

Gli enologi – per noi italiani un’etichetta ancora da venire – sono tutti francesi. A cominciare da quel Louis Oudart al quale si deve la felice intuizione di contenere il freddo…

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