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Torta Costanzo

di di Giancarlo Saran

Nel 2021 si ricordano i 1600 anni della fondazione di Venezia, una città capitale del mondo testimone di passaggi di civiltà diverse. Nacque sulle rovine dell’impero romano, per la fuga tra le tranquille isole lagunari di famiglie al riparo dalle razzie barbare. Nel tempo divenne un riferimento dapprima dei traffici commerciali di allora per poi riposizionarsi in terraferma con la civiltà della villa, bellezze giunte a noi firmate Palladio su tutti. Venezia cenacolo di artisti senza tempo, da Tiepolo a Veronese e innumerevoli altri. La Repubblica dei Dogi una delle strutture più longeve nel tempo, assieme all’Impero Romano. Poi una lenta decadenza, sostenuta da un risorgere come araba fenice quale calamita turistica. 1600 anni che hanno viste coinvolte, con una rilettura personale, anche le realtà periferiche, ognuna proiettata a offrire il meglio di sé, con qualche novità. Castelfranco Veneto è la città del Giorgione per antonomasia, anche se ha molto altro da offrire al potenziale turista. Dalla cinta murata, ambasciatrice medioevale, passando per il rinascimento del Giorgione a un settecento meno conosciuto ma con testimoni importanti, dalle scienze (famiglia Riccati) all’architettura (Francesco Maria Preti) e un’epoca tardo romantica che vede in parco e villa Bolasco un’eccellenza riconosciuta. Dagli orti arriva l’originale Radicchio variegato, dai colori che rimandano alla tavolozza di Giorgione, fratellino minore del più noto trevigiano. La fregolotta un dolce semplice della tradizione nato “per importazione” durante il secolo breve. Eppure ingredienti per assemblare con fantasia una nuova proposta che sappia conciliare testimonianza storica con cultura materiale non mancano. Nasce così la Torta Costanzo, un’intuizione di chi scrive studiata assieme ad un pasticciere da sempre in trincea fra tradizione e innovazione, Alberico Titton, Pasticceria Opera. Giorgione è calamita e testimonial della Città, ma pochi sanno, a cominciare dai residenti, che Castelfranco veneto non avrebbe mai potuto avere la famosa Pala, custodita entro il Duomo, se alla base non ci fosse stato un generoso mecenate, la famiglia Costanzo, originari di Messina. Memorizzarli con una torta golosa un grimaldello per incuriosire a scoprire chi fossero. Tuzio, definito dal re di Francia Luigi XII “prima lancia d’Italia” era vicerè di Cipro in quella delicata fase storica in cui Venezia cercava un equilibrio tra controllo delle rotte commerciali e il sempre aperto confronto militare con la potenza ottomana. Regina di Cipro divenne Caterina Cornaro, rampolla di una delle più potenti famiglie veneziane. Dopo alcuni anni, rimasta vedova, decise di tornare alla terra natia, scegliendo Asolo, laddove a lei è ancora intitolato il castello. I Costanzo sempre al fianco, residenti in pianura, a Castelfranco. Muzio, il figlio prediletto dell’ex vicerè, mori al servizio delle truppe serenissime nel ravennate. Fu così che il padre, per renderlo immortale a futura memoria, chiese al giovane Giorgione di creare una pala d’altare per la cappella di famiglia. Il resto è cosa nota tranne il fatto che i Costanzo sono tornati, immeritatamente, nell’ombra. Venezia straordinario mix di miseria e nobiltà. Nelle campagne di allora si usava una varietà di mais, detto cinquantino, dalla pannocchia più piccola, molto veloce nella maturazione, circa cinquanta giorni, appunto. La sua polenta dieta quotidiana di contadini che ne seminavano il germe dopo aver consegnato il raccolto principale (frumento e mais pregiati) ai signori in villa, ma la stagione ancora permetteva, alle soglie dell’estate, di mietere e raccogliere il frutto per la famiglia. Con l’affermarsi delle colture intensive il cinquantino era praticamente sparito, anche se il più autorevole studioso del tempo, Tito Vezio Zapparoli, lo classificò tra i più pregiati (assieme a pochi altri) prima che gli ibridi dettassero legge. Nella castellana un manipolo di eroi, guidato da Renato Ballan, referente locale di Slow Food, dopo essersi procurati, nel 2013, il genoma originale presso l’Istituto di Maiscoltura di Bergamo, hanno iniziato a coltivarlo, in terreno protetto sino a raggiungere piccole quantità commerciabili. “Non si tratta solo di salvaguardare la biodiversità con le sue storie – ricorda Ballan – ma queste colture hanno anche un forte impatto ambientale. Consumano meno acqua e permettono di salvaguardare meglio costi ed equilibri nelle nostre campagne”. Vi sono poi le spezie sul cui commercio Venezia aveva costruito la sua fortuna. Tra XV e XVI secolo “raggiunse il monopolio di levante e ponente”, acquistando la merce speciale (dal latino species, quindi spezie) in Oriente per poi esportarla in tutta Europa. Centro di gravità permanente il mercato di Rialto dove ancora adesso troviamo la Ruga degli Spezieri, una specie di via Montenapoleone… speziata. Una rivoluzione anche a tavola (oltre che nella farmacopea), dove l’uso delle spezie faceva la differenza, in un tempo in cui il popolo doveva accontentarsi di dare gusto a quel passavano i fornelli con erbe aromatiche quali rosmarino, prezzemolo, salvia. Su tutti il re delle spezie, il pepe. Qui scende in campo il loro profeta del terzo millennio, il veronese Gianni Frasi. Nome già noto nell’empireo dei cultori del caffè con la sua torrefazione Giamaica. Nel 2004 lo spleen di ricordi familiari lo spinge a recuperare un’attività dimenticata dagli anni sessanta. Con l’amico veneziano Celso Fadelli (editore di profumi), prendono l’aereo che li porta a Kuching, capitale del Sarawak, nel Borneo occidentale. “Qui ci sono le sole piante originali del pepe, le altre sono arrivate dopo”. Nel 2004, come racconta a Gian Luigi Di Stefano, in quell’angolo di mondo compratori e produttori non si erano mai posti il problema della qualità, ignorando le enormi potenzialità che la terra offriva con i suoi frutti. “Volevo restituire alla spezia la sua dignità, ci sarà un motivo se, un tempo, con tre chili di pepe i veneziani si compravano un palazzo sul Canal Grande” Frasi conosce bene le tecnologie e le liturgie che rendono il caffè (il suo caffè) un piccolo miracolo quotidiano. Si tratta solo di tradurne la filosofia nella pratica applicata al pepe. Nel silenzio generale (e un po’ distratto) dell’elite locale, uno solo si alza per seguirli, il piccolo e modesto, ma solo d’aspetto, signor Siew. Nasce Maricha, sui colli veronesi, condotto ora dalla moglie Stefania, l’unico laboratorio al mondo ad occuparsi solo ed esclusivamente di pepe. Laggiù Mr. Siew è metodico. Lavora il frutto entro ventiquattrore dalla raccolta, giacimento i giardini di Sarikei. Le bacche lavate e passate in pentola a pressione. Sbucciate rigorosamente a mano e poi essiccate in forno. Stefania ha scelto per la Torta Costanzo la variante Kuching, il cui gusto lungo, poi, ha lasciato il segno nei palati che si sono deliziati con … costanza dolce. Il tocco finale con le more, un’ideale jont venture storica (di civiltà rurale) e geografica (con la nobiltà siciliana dei Costanzo). Il gelso, oramai, rappresenta una sorta di archeologia botanica. Un tempo era l’equivalente del maiale, non si buttava via niente.

Le foglie utili per la bachicoltura (da lì la produzione della seta, un’altra delle eccellenze storiche del territorio). Fondamentale per l’equilibrio dell’eco sistema. Le sue radici, con un legame erculeo al terreno sottostante, strategiche per trattenere le viti sui declivi collinari (ecco le viti “maritate”), ma anche guardiane, nei viottoli di pianura, a che rigagnoli e fiumiciattoli scorressero con i loro argini resistenti.

La bacca (prevalentemente bianca, al nord) piccolo premio goloso per i bimbi mandati a raccogliere fogliame, carburante per i bachi domestici. Quelle rosse (la Sicilia regina) dalle mille virtù, non solo golose. Ricche di ferro (seconde solo agli spinaci); dolci ma eclettiche, tanto da rallentare l’assorbimento di zuccheri durante i peccati di gola. Classiche a gelato, ma anche alla mediterranea, con arance, oppure in agrodolce, con la cipolla di Tropea. In Sicilia la granita è un classico senza tempo, ma ci stanno pure i biscotti e, perché no, anche la Torta, quella Costanzo in jam session golosa con il nobile pepe, il rustico cinquantino. Una grande successo che potrebbe diventare un instant classic e ricordare al turista di passo, ma anche ai residenti, che se Castelfranco Veneto è la Città del Giorgione, ai Costanzo va dato il … gusto merito.

 

LA MIA TORTA COSTANZO

di Alberico Titton

La frolla è un impasto tipo viennese di farina di cinquantino montata con burro, zucchero e mandorle. Si aggiungono anice stellato, cannella, noce moscata e ginepro in bacche. La marmellata di more viene cotta con zucchero e pasta di mele per dare consistenza. Con la sache a poche si distribuisce l’impasto nella teglia. Si versa la marmellata e poi si decora il tutto con striscioline di pasta. Grattugiata finale di pepe (già presente nella marmellata). Cottura in forno a 180° per 40’.

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