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Soave: una storia, un vino, un territorio

di P. P.

“Nomen (est) omen”. Questo modo di dire, di indubbia origine latina e ascritto al poeta-commediografo Tito Maccio Plauto è, tradizionalmente tradotto e sintetizzato nei seguenti concetti “il destino nel nome” o “il nome è un presagio”.

Detto che, nell’Antica Roma, assumeva un grande significato: infatti, non era solo un modo per distinguersi dagli altri, ma anche il “luogo” in cui era inscritta tutta la vita di un uomo, o anche di un territorio: passata, presente, futura.

Nella sostanza, dunque, una definizione che meglio di ogni altro sintetizza, l’immagine di un’area che, da sempre, vive in simbiotica armonia con il suo prodotto ‘principe’, il vino.

Una simbiosi che affonda le proprie radici allorquando le teutoniche tribù sveve, al seguito di Alboino, si insediarono stabilmente in questo territorio, individuando nel comprensorio di Soave, vuoi per l’amenità del paesaggio, per la dolcezza del clima e per la fertilità dei suoi terreni, l’ambito ideale per farne la loro ‘nuova’ patria.

D’altro canto, già in epoca romana, i terreni di Soave erano noti, quale pagus ovvero dei veri distretti campagnoli circoscritti e centuriati, destinati all’attività di produzione delle più tradizionali, ed essenziali, derrate alimentari necessarie allo strategico approvvigionamento delle legioni operanti nel Nord Italia o, addirittura, in Centro Europa.

E’, comunque, accertabile far risalire la presenza della vite, nel comprensorio soavese, a 40 milioni di anni fa. Testimonianze fossili, presenti nel museo di Bolca in Val d’Alpone, documentano come la famiglia delle Ampelidee sia la generatrice delle viti selvatiche europee.

Qui, infatti, sembra sia nata la vite, anche se è probabile che alcune delle varietà autoctone fondamentali del territorio scaligero siano giunte dall’Oriente. Autorevoli studiosi sostengono che la nascita di alcuni fondamentali ceppi storici dell’attività viticola, come la Garganega o lo stesso Trebbiano di Soave (ma anche altri vitigni che nel veronese rappresentano il fondamento di produzioni enoiche che il mondo apprezza e ci invidia), sia da attribuire alla contaminazione tra le uve Retiche, originate dalle Ampelidee, e alcuni vitigni giunti dal bacino del Mediterraneo.

Cassiodoro riassunse questa evoluzione nelle proprie epistole, anteriori all’anno mille, raccomandando, in particolare, di non far mancare mai dalla mensa imperiale i vini veronesi da uve bianche: “soavissimi e corposi” capaci di esprimere “chiara purità....gioviale candidezza e soavità incredibile”.

Questo documento, al pari di storiche successivi, documentati scritti, contribuiscono a nobilitare il ruolo di Soave, vuoi ai territori vuoi ai nobili prodotti dei suoi vitigni, e a dargli quel pedigree di nobiltà che caratterizza, oggi come ieri, quel ‘nettare degli Dei’, noto al mondo come Soave, ovvero simbiosi dell’equilibrata connubio fra il Trebbiano di Soave e la Garganega.

Un processo, risultato di una cultura imprenditoriale forgiata dal tempo e dai confronti con il mercato, che contribuisce a fare di questo comprensorio un permanente, dinamico, laboratorio produttivo dove, si è affermato, ieri, l’allevamento viticolo “a palo secco” da vita, quindi, in successione, quello a pergola veronese con cui si attua una gestione intelligente della vite anche se, nel recente, si diffonde quella a viti basse e il sistema d’allevamento Guyot.

Dinamismo che alimenta una cultura imprenditoriale potenzialmente innovativa dove la combinazione ‘frutto della terra, lavoro nella cantina’ trovano una sintesi esaltante tanto da fare di questo “eminente Classico vino bianco d’Italia” il bianco italiano più esportato.

Un primato raggiunto con l’adozione di tecniche di marketing originali, come quella che alla metà degli anni ’70 contribuì, attraverso una diffusa campagna di immagini (affissioni e pubblicità su prestigiosi media) a educare i consumatori statunitensi al migliore e più corretto abbinamento tra vino-cibo, ma anche ad ardite sperimentazioni da parte di alcuni eminenti enogiornalisti, cultori dei fondamenti dell’enogastronomia, che abbinarono il Recioto di Soave, tenuto per una intera giornata in freezer, con alcuni piatti di pesce, a documentare la duttilità di questo pregevole vino da dessert.

Contributi volti a confermare l’ampio ventaglio di utilizzi del Soave e dei suoi più gradevoli abbinamenti ai piatti base della cucina internazionale.

Un connotato che trova rara corrispondenza nel panorama viticolo ed enologico. Invece in questi terreni e colline di terreno tufaceo di origine vulcanica, con importanti affioramenti calcarei, si realizza, si realizza, da tempo, una felice simbiosi tra ambiente e vitigno che alimenta la produzione di vini bianchi di qualità.

Un comprensorio che coinvolge i comuni di Soave, Monteforte, San Martino B.A., Lavagno, Mezzane, Caldiero, Colognola, Illasi, Cazzano di Tramigna, San Bonifacio, Roncà, Montecchia e S. Giovanni Ilarione. Aree nelle quali la Garganega, il principale vitigno della denominazione, ha trovato un habitat ideale, specie nei contrafforti collinari caratterizzanti le valli d’Alpone, di Tramigna, di Illasi e di Mezzane.

Quindi, in successione, l’attività di zonazione e quella di caratterizzazione, per mappare i fattori caratteristici dell’intero terroir nell’intento di conoscere le caratteristiche qualitative della produzione vinicola comprensoriale, la ricerca e l’individuazione di genotipi specifici dello stesso territorio per distinguere e valorizzare le produzioni vitivinicole area per area, hanno rappresentato il ‘germe’ di una attività di analisi proiettate a rafforzare l’identità del vino Soave, frutto non casuale di una rete di imprese proiettate a internazionalizzare il proprio ruolo.

«L’esserci impegnati nell’affermare l’identità geologica, geografica e ampelografica dei territori del Soave hanno consentito – afferma il direttore del Consorzio di Tutela Vini Soave, Aldo Lorenzoni – di ampliare il ventaglio delle personalità con cui il nostro vino si propone all’attenzione del consumatore internazionali. Una personalità che ha una propria originale appendice nella caratterizzazione di un paesaggio, ormai prossimo a divenire patrimonio universale in cui, castelli, chiese, campanili e ville patrizie, unitamente ai vigneti, testimoniano l’amenità di un territorio ricco di storia, tradizione ma anche di presidi di una viticoltura eroica che intimamente si collega al suo vino».

Oggi, in questa ‘culla’ della Garganega e del suo ‘vassallo’, il Trebbiano di Soave, entrambe cultivar antiche temprate dal tempo, in collina e sulle vecchie vigne, operano circa 3000 aziende, che coltivano 7000 ha dando vita ad una produzione di 53 milioni di bottiglie/anno.

Dunque, un ‘paniere’ di delizie enoiche destinate per il 30% al mercato tedesco, per il 15% a quello della Gran Bretagna, per l’8% assorbito dal mercato statunitense, per il 15% dai consumatori italiani, per il 9% dagli altri Paesi europei mentre per il 18% dal resto del mondo.

«Nell’ambito dell’articolato panorama della produzione enologica italiana, il vino Soave – evidenzia il presidente del Consorzio Vini Soave, Sandro Gini – rappresenta un riferimento tout-court nel panorama nazionale e non solo. Pur circoscritto in un territorio collinare e di limitata ampiezza, i vini Soave, esportati per oltre l’80% della produzione, sono la più affermata espressione dell’enologia ‘made in Italy’ oltre che espressione di una vocazione all’internazionalizzazione che affonda le proprie radici in tempi assai lontani, ma anche in una organizzazione imprenditoriale e di una vivacità promozionale che non ha riscontri nel nostro Paese. Piccole aziende, imprenditori lungimiranti, cooperative virtuose hanno contribuito a ‘disegnare’, nel tempo, il ‘Mondo Soave’ che sa analizzare, affrontare e confrontarsi con le più importanti sfide che il vino italiano è chiamato ad affrontare nel suo lungo percorso nella conquista di aree di mercato remunerative. La ricerca nel vigneto e in cantina, viste non come fini a se stesse bensì quale bagaglio di conoscenze e di certezze nel perseguire nuovi obiettivi. Impegni che uniti alla flessibilità, alla lungimiranza organizzativa e ad una attenta gestione delle produzioni hanno permesso a quello che era considerato un ‘fenomeno’ di diventare ‘sistema’. Un sistema che oggi trova spazi sempre più ampi sul mercato giapponese e che è in grado di produrre reddito, e occupazione per il territorio, alle imprese impegnate nella filiera (uva, vino, bottiglie, etc.) anche nei momenti più complessi e complicati. Da queste consapevolezze nasce la volontà per perfezionare i connotati qualitativi del prodotto e individuare nuovi mercati su cui trovare spazi interessanti».

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