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Qian Wu: Blue. L'ultimo artista nello spazio

di Luca Beatrice

Planet Earth is blue and there’s nothing I can do / Il pianeta Terra è blu e non c’è niente che io possa fare cantava David Bowie nel luglio del 1969. Qualche anno prima, il pilota russo Yurij Gagarin era riuscito a superare i confini dell’orbita terrestre lasciando al mondo una frase destinata a fare storia: Vedo la terra. È blu.

Queste parole non possono fare a meno di tornare in mente osservando le opere di Qian Wu, artista cinese classe 1991, certamente lontano per ragioni anagrafiche alla Space Age ma comunque affascinato da un mondo che per quelli delle generazioni precedenti segnò il vero cambiamento di distanza. Eppure, a ben oltre mezzo secolo di distanza, ecco ribadirsi l’assoluta contemporaneità del colore del cielo. Sebbene la sua scoperta sia relativamente recente rispetto a quella del bianco, del nero o del marrone (non c’è alcuna traccia di blu nelle pitture rupestri), il pigmento estratto dal lapislazzulo fu in grado di imporsi con una certa dirompenza nelle tavolozze di tutti i pittori. Non appare un caso, dunque, che Wu scelga deliberatamente le infinite tonalità dell’azzurro per far incontrare oriente e occidente, quando fu proprio il blu – l’oltremare, per l’esattezza – a rendere l’Asia e l’Europa un po’ meno lontane. Utilizzato per la prima volta nel VI secolo d.C. negli affreschi buddisti di Bamiyan, in Afghanistan, arrivò in Europa soltanto nel XII secolo per decorare i veli delle Madonne e il cielo di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. Se da quel momento in poi il suo utilizzo non è più una rarità, nei secoli precedenti il blu fu ostracizzato a colore barbarico e mortuario, soprattutto presso gli antichi Greci e Romani. In Blu. Storia di un colore, l’antropologo francese Michel Pastoureau traccia un’analisi puntuale del riordinamento del sistema cromatico, a dimostrazione di quanto questa tonalità, oggi simbolo di calma, efficienza e armonia, abbia rappresentato – e rappresenti tutt’ora – un fatto sociale a piena regola. A proposito di accadimenti, la svolta davvero significativa arrivò nel clima di fermento della Rivoluzione industriale, quando venne brevettata la prima versione sintetica dell’oltremare. Con l’introduzione dei pigmenti artificiali, l’esperienza dell’atelier fu presto sostituita dagli impressionisti con la pittura “en plein air” - ecco allora le Ninfee di Monet o la Montagna Sainte Victoire di Cézanne tingersi di anomali azzurri violacei che sembrarono anticipare un certo uso concettuale del colore, piuttosto che ripiegare su un ormai logoro senso naturalistico. Cinquant’anni dopo il blu tornò nuovamente al centro del dibattito artistico senza perdere nulla della sua importanza storica e della sua profondità; nel 1956, in un colorificio di Montparnasse, Yves Klein ne sviluppò una versione opaca, che registrò quattro anni dopo con il nome di International Klein Blue (IKB). Lo utilizzò in più di duecento opere monocrome tra dipinti, sculture e corpi di modelle che imprimevano le loro “antropometrie” su lunghi rotoli di tela - e lo riprese, dopo di lui, tra gli altri, il regista e pittore inglese Derek Jarman, che ne fece uno degli esempi più toccanti nel film del 1993 Blue. Impossibile passare in rassegna in maniera esauriente le molteplici apparizioni del blu nella storia dell’arte, un percorso suggellato da artisti come Pablo Picasso, David Hockney, dagli italiani Pino Pascali, Marco Gastini, Irma Blank e Mario Schifano – per citarne alcuni. Probabilmente, la poetica di Qian Wu non sarebbe così autentica senza l’esperienza del passato. I suoi cieli labirintici, irregolari, attraversati da continui strati di vernice non sarebbero spazi di tensione emotiva quali sono, se il blu non si fosse svincolato dai limiti che gli erano propri. Ragionando in positivo, il suo vocabolario astratto – al limite della filosofia e della spiritualità – è costruito da energie che evocano volontariamente la storia, cercando di non fermarsi al visibile ma eludendone i confini. È questo dato a caratterizzare in maniera peculiare il suo lavoro, che conferisce in egual misura unicità e importanza a ogni sua scelta; dalla palette seriale – prima esclusivamente in bianco e nero, ora in blu – alle proprietà simboliche della pennellata.

Non si tratta solo di strati di vernice stesi sulla superficie; tutti gli elementi che entrano in gioco in queste tele mirano a restituire immagini pure, uniche, sublimate di sensi e significati.

Il lavoro di Wu è da intendersi come un’esperienza armonica tra yin e yang, la cui testimonianza visiva assume un certo rilievo poiché mira a fermare un momento transitorio. In questo modo, un particolare effetto - reso grazie a un uso sapiente di oli, acrilici e inchiostri - diviene l’obiettivo di competere con uno sguardo influenzato sì dalla tradizione orientale, ma anche – e soprattutto – da quella occidentale. Non sorprende dunque, dinnanzi a tutto questo, il trovarsi di fronte a un’ulteriore tappa del cammino di un colore che non smette mai di evolversi ed espandersi nell’energia. Il blu.

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