La lunga storia del Pomodoro
di Enzo Gambin
La storia del pomodoro intreccia botanica, cultura e gastronomia; da semplice curiosità botanica è giunto a simbolo della cucina italiana e il merito va anche alla città di Napoli, che ha saputo trasformarlo in un elemento imprescindibile della tradizione culinaria italiana.
Originario delle regioni andine del Sudamerica, il pomodoro selvatico era conosciuto e coltivato già da popolazioni precolombiane, come gli Aztechi, che lo chiamavano "xitomatl" e lo utilizzavano in cucina per preparare salse, lo coltivavano nelle “chinampas”, un sistema agricolo incredibilmente produttivo.
Il contatto con il mondo europeo avvenne dopo la conquista del Messico da parte di Hernán Cortés, 1519 - 1521.
Furono i conquistadores a portare in Spagna i primi semi, dando inizio al lungo percorso di acclimatazione e integrazione del pomodoro nel Vecchio Continente. Le prime varietà introdotte in Europa erano di colore giallo dorato, da cui deriva il nome italiano "pomodoro", “pomo d’oro”, ovvero “mela d’oro”.
All’inizio, il pomodoro non veniva consumato ma ammirato come pianta ornamentale e, essendo una solanacea, come la mandragora o la belladonna, era ritenuto tossico.
Nel corso dei secoli, numerosi botanici si interessarono al pomodoro, contribuendo alla sua classificazione scientifica e alla sua diffusione culturale come Pietro Andrea Mattioli, 1501–1577, medico e botanico senese. Il Mattioli fu tra i primi europei a descrivere il pomodoro, che chiamò “pomi d’oro”, nei suoi “Discorsi sopra la materia medica di Dioscoride”, per lui era una pianta esotica e ornamentale.
Nello stesso periodo John Gerard, 1545–1612, erborista e giardiniere inglese, nella sua opera “Herball, or Generall Historie of Plantes” descrisse il pomodoro come "a plant of ranke and stinking savour", “una pianta dall’odore forte e sgradevole”.
Tra gli studiosi che intuirono il potenziale alimentare del pomodoro vi fu Philip Miller, 1691–1771, direttore del Chelsea Physic Garden di Londra, autore del celebre “Gardener’s Dictionary”, che riconobbe il pomodoro come pianta coltivabile e commestibile. Le sue descrizioni dettagliate sulla coltivazione ne facilitarono la diffusione nei giardini botanici ma poi, grazie anche all’agricoltura sperimentale e alle selezioni botaniche, il pomodoro cominciò a essere coltivato in modo più sistematico. Gli agricoltori iniziarono a favorire varietà di lunga maturazione, riducendo così la presenza di solanina e rendendole più adatte al consumo umano.
A metà Settecento, Carl Linnaeus, 1707–1778, naturalista e medico svedese, nella sua opera “Systema Naturae”, attribuì al pomodoro il nome scientifico di “Solanum lycopersicum”, caricandolo di significati simbolici.
“Solanum” deriva dal latino classico ed è legato alla radice latina “solari”, che significa "consolare" o "alleviare", in riferimento alle sue proprietà medicinali.
“Lycopersicum”, invece, è una parola composta, combinata dal greco “λύκος” “lýkos "lupo" con “persicum”, che deriva dal latino, dove significava "pesca", a sua volta adattata dal greco antico “περσικόν”, “persikón”, che significa "di Persia", così da creare un'immagine evocativa, ovvero la "pesca del lupo", accrescendo l’alone di mistero e fascino attorno a questo frutto esotico, comparandolo alla pesca per la sua forma e al lupo per la sua natura selvatica.
Se botanici e agricoltori hanno cercato di dare dignità di pianta da orto al pomodoro fu, però, Napoli che lo ha portato a ingrediente cardine della cucina italiana grazie a Vincenzo Corrado, 1736–1836, cuoco e intellettuale napoletano. Corrado fu uno dei primi a riconoscere e valorizzare l’importanza del pomodoro e nel 1773, quando pubblicò “Il Cuoco Galante”, nel capitolo dedicato agli “ortaggi” lo inserisce in diverse preparazioni, come la "Salsa di pomo d’oro": “Si prendono pomi d’oro maturi, si spellano, si schiacciano, e si mettono a cuocere con olio, cipolla trita e qualche odore delicato come il basilico.
Se Napoli fu essenziale nel consacrare il pomodoro come ingrediente simbolico della cucina italiana, fu Parma che ne diffuse la coltivazione grazie a Carlo Rognoni, 1829 –1904. Rognoni modernizzò le tecniche agronomiche selezionò e sperimentò nuove varietà adatte alla produzione conserviera, come il "Ladino di Panocchia", che si distinse per frutti di medie dimensioni, con polpa carnosa, ideale sia per il consumo fresco che per la trasformazione in conserve.
Nel 1874, Rognoni fondò una società di agricoltori per la preparazione della conserva di pomodoro e ne promosse la coltivazione attraverso il “Bollettino del Comizio Agrario Parmense”.
Alla fine dell'Ottocento, la provincia di Parma contava 16 opifici dedicati alla produzione di conserva di pomodoro in pani, usando metodi tradizionali con caldaie a fuoco diretto. Il processo coinvolgeva la spremitura manuale dei pomodori, la bollitura sul fuoco a legna e l'asciugatura al sole. A partire dal Novecento, le tecniche migliorarono con l'introduzione delle caldaie a vapore, che consentivano una bollitura sotto vuoto e la confezione della conserva in lattine, rendendo necessarie maggiori risorse finanziarie.
Antonio Bizzozero, 1857–1934, agronomo italiano di grande rilievo, noto per il suo contributo alla modernizzazione dell'agricoltura nella provincia di Parma nel 1913 scriveva: “State pur certi che i maccheroni al sugo con pomidoro ed il risotto al pomidoro, col relativo condimento di burro di pura panna e Parmigiano stravecchio, diverranno due istituzioni mondiali”.
Un'affermazione quella di Bizzozero audace e lungimirante, che ha celebrato il pomodoro non solo come ingrediente, ma come simbolo di connessione culturale e di piacere condiviso a tavola.
Il pomodoro è la “salsa rossa” per eccellenza, incarna semplicità, versatilità e intensità di gusto, profondamente democratico perché non è costoso e si coltiva facilmente.
Il pomodoro è un ortaggio che “si dona facilmente” alla trasformazione, diventa conserva, salsa, passata, pelato, sugo veloce, buono tagliato a fette e condito, è come se si adattasse al tempo e alla cultura di chi lo cucina. Potremmo così dire che il pomodoro è un simbolo di trasformazione: da crudo è fresco, vivo, quasi "acerbo", cotto diventa dolce, profondo, accogliente e più la cuoci, più rivela sapori nascosti.
Il pomodoro si presta all’urgenza di piatti da fare in un attimo, come una spaghettata “olio e del sugo di pomodoro”, sia a rituali lenti e collettivi come la conserva fatta in casa.
Il pomodoro è succoso, saporito, acidulo ma è anche dolce, stimola la salivazione, si lega a grassi, come l’olio e il burro, che a carboidrati, come pasta e pane; è un perfetto mediatore tra ingredienti, così quando un piatto è “buono” quasi sempre c’è un pomodoro dietro, che ha fatto il suo lavoro in silenzio.
Basti pensare alla “pizza margherita”, la quintessenza della cucina italiana, semplice, genuina e straordinariamente deliziosa, pochi ingredienti: pomodoro, mozzarella, basilico fresco e un filo di olio extra vergine d'oliva, un perfetto equilibrio di sapori.
Dopo aver attraversato secoli di storia e aver conquistato le tavole di tutto il mondo, il pomodoro trova un posto speciale nel cuore degli italiani, e non solo, anche grazie alla sua presenza in una delle canzoni più amate dell'infanzia: “La pappa al pomodoro” del 1964, scritta da Lina Wertmüller, musicata da Nino Rota e cantata da Rita Pavone, nel film “Il giornalino di Gian Burrasca” di Luigi Bertelli, 1860 – 1920. Oggi, il pomodoro è un emblema della dieta mediterranea, è il risultato di un viaggio lungo secoli, da cibo degli "Aztechi " a protagonista di tavole raffinate e racconta la storia di una cucina che si adatta, accoglie e valorizza.
Nella gastronomia il pomodoro è simbolo di trasformazione, capace di adattarsi al tempo e alle esigenze, senza mai perdere il suo fascino come lo descrisse Pablo Neruda nella sua “Ode al pomodoro”:
“ La strada si riempì di pomodori, mezzogiorno, estate, la luce si divide in due metà di un pomodoro, scorre per le strade il succo. In dicembre senza pausa il pomodoro invade le cucine, entra per i pranzi, si siede riposato nelle credenze, tra i bicchieri, le matequilleras, le saliere azzurre. Emana una luce propria, maestà benigna. Dobbiamo, purtroppo, assassinarlo: affonda il coltello nella sua polpa vivente, è una rossa viscera, un sole fresco, profondo, inesauribile, riempie le insalate del Cile, si sposa allegramente con la chiara cipolla, e per festeggiare si lascia cadere l’olio, figlio essenziale dell’ulivo, sui suoi emisferi socchiusi, si aggiunge il pepe la sua fragranza, il sale il suo magnetismo: sono le nozze del giorno, il prezzemolo issa la bandiera, le patate bollono vigorosamente, l’arrosto colpisce con il suo aroma la porta, è ora! andiamo! e sopra il tavolo, nel mezzo dell’estate, il pomodoro, astro della terra, stella ricorrente e feconda, ci mostra le sue circonvoluzioni, i suoi canali, l’insigne pienezza e l’abbondanza senza ossa, senza corazza, senza squame né spine, ci offre il dono del suo colore focoso e la totalità della sua freschezza.”
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