Il Fico: radici millenarie
di Enzo Gambin
"Ma quando è maturo e sugoso
allora è il momento del fico
ch’e buono sì che non vi dico.”
(Francesco Guccini)
Il fico è uno dei frutti più antichi coltivati dall’uomo e porta con sé un forte significato simbolico, un esempio è il “fico ruminale”, strettamente legato alle origini di Roma.
Secondo la mitologia romana, Romolo e Remo, figli di Marte e della vestale Rea Silvia, furono abbandonati in una cesta che galleggiava sul fiume Tevere. La cesta si fermò presso un fico che cresceva vicino alla grotta sacra del Lupercale, ai piedi del colle Palatino. In questo luogo, i due neonati furono trovati e allattati da una lupa, un evento che diede origine al simbolismo del fico “ruminale”. Il termine “ruminale” deriva dal latino arcaico “ruma”, che indicava la mammella di un animale, in stretta relazione con la figura di Rumina, la dea romana dell’allattamento e della nutrizione dei neonati.
Il “fico ruminale”, quindi, si collega profondamente al concetto di nutrimento e protezione, incarnato dalla dea stessa.
Oltre al simbolismo, il fico ebbe anche un ruolo concreto nella storia romana con Marco Porcio Catone, 234 a.C. - 149 a.C.. Catone si presentò al Senato romano con un cesto di fichi freschi raccolti a Cartagine per dimostrare quanto la città nemica fosse vicina, in quell'occasione pronunciò la famosa frase: "Ceterum censeo Carthaginem esse delendam" - "E inoltre, ritengo che Cartagine debba essere distrutta".
Questo gesto contribuì a convincere il Senato a intraprendere la Terza Guerra Punica, che si concluse con la definitiva distruzione di Cartagine.
La parola “fico” deriva dal latino “ficus”, che indicava sia l'albero sia il frutto, ma è probabile che la sua radice sia legata all'accadico, un'antica lingua semitica orientale, in cui il fico era chiamato “pikku”.
È plausibile che l’accadico “pikku” abbia influenzato la formazione del latino “ficus” pur appartenendo a famiglie linguistiche diverse, forse per interazioni culturali e commerciali nel bacino del Mediterraneo.
Il fico ha lasciato un'impronta certa nel linguaggio greco e romano creando termini e concetti legati alla medicina, alla botanica e alla cucina.
Nel greco antico, il fico era chiamato “σῦκον” , “sŷkon”, da cui deriva “sicotico”, termine medico utilizzato, per indicare affezioni suppurative croniche che colpiscono i follicoli piliferi del viso.
Altro derivato da "σῦκον", “sŷkon”, è “σύκοϕάντης”, “sykophántes”, composto da “σύκον”, “sykon, "fico", e “φαίνω”, “phaino”, "mostrare".
In origine, il “sykophántes”, “sicofante” indicava una persona che denunciava il contrabbando o il furto di fichi sacri, pratica vietata nell’Attica per proteggere le risorse alimentari della popolazione più povera.
Nel tempo, il significato di "sicofante" si è evoluto, passando a descrivere un accusatore di professione, spesso motivato da interessi personali o economici.
Il fico ha influenzato anche il nome del “fegato”.
Nel latino classico, questo organo era chiamato “iecur”, ma successivamente il termine fu sostituito con “ficatum”. Questa parola, nata in ambito culinario anziché medico, significava “ingrassato con fichi” e si riferiva al fegato degli animali sottoposti a tale pratica.
Forse, “ficatum” iniziò a indicare direttamente il fegato, sostituendo il termine “iecur”, probabilmente tra il I e il II secolo d.C., quando le pratiche culinarie e linguistiche si influenzarono reciprocamente, dato che Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.), poeta dell'età augustea, nelle sue Satire, descrive una cena lussuosa offerta da Nasidieno, in cui tra le pietanze figurava il fegato d'oca ingrassato con fichi, è evidente che l'uso di “iecur” fosse ancora prevalente all'epoca: “nam ficis et nuceo medullus iecur anseris albae pastum iuvit” (Satira II, 8, vv. 88-89). La frase può essere tradotta come: “Infatti fu gradito il fegato dell’oca bianca, ingrassato con fichi e con il midollo delle noci.”
Questo fenomeno linguistico legato al fico, noto come polisemia, potrebbe non essere stato casuale, considerando che questo albero e il suo frutto erano simbolo di generazione e vita in molte culture antiche, infatti, se prendiamo il libro della Genesi troviamo che: “dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, Adamo ed Eva si accorgono della propria nudità e si cingono i fianchi con foglie di fico” (Genesi 3:7).
Questo particolare ha suscitato, nel tempo, numerose interpretazioni ed è stato ipotizzato che il frutto proibito fosse proprio il fico, per via dell’associazione immediata tra il peccato e l’uso delle sue foglie per coprirsi.
Tesi questa che trova un eco anche nel testo apocrifo “Testamento di Adamo”, II–III secolo d.C.). In questo scritto, Adamo si rivolge al figlio Set e gli narra episodi fondamentali della creazione, della vita nel paradiso terrestre e della caduta. In un passo, Adamo afferma che il frutto dell’albero della conoscenza fu un fico, rafforzando così la connessione simbolica tra questo albero e l’origine del peccato.
Nell’Antico Testamento, il fico è presente in diversi passaggi, come Giudici 9,10-11, qui il fico viene personificato e invitato a regnare sugli altri alberi.
Nel primo libro dei Re (5,5), sotto il regno di Salomone, il fico è simbolo di sicurezza, stabilità e prosperità. Nel Cantico dei Cantici (2,13) fa riferimento al fico, associandolo alla bellezza, alla rinascita e alla fecondità della natura e dell’amore.
In Isaia 28,4, il fico primaticcio diventa metafora di qualcosa di estremamente desiderabile e prezioso.
Nel libro di Michea (4,4) il fico rappresenta uno stato di pace e benessere “ognuno siederà sotto la propria vite e il proprio fico, senza timore né inquietudine”.
Nei Vangeli, il fico ritorna in due episodi dal forte valore simbolico, uno in Luca (13,6-9) dove Gesù racconta la parabola del “fico sterile” e in Marco (11,12-14), dove Gesù, trovando un fico privo di frutti, lo maledice e l’albero si secca.
Plinio il Vecchio, 23 – 79, menziona il fico in diversi passaggi della sua Naturalis Historia, ecco una delle citazioni più significative dal Libro XIV, paragrafo 102: “Sic fit et sycites e fico, quem alii pharnuprium, alii trochin vocant, aut si dulce esse non libeat, pro aqua tantundem vinaceorum adicitur. E Cypria fico et acetum fit praecellens atque Alexandrino quoque melius.” “Così si produce anche il sycites dal fico, che alcuni chiamano pharnuprium, altri trochin; oppure, se non si desidera che sia dolce, si aggiunge al posto dell'acqua una pari quantità di vinacce. Dal fico di Cipro si ottiene anche un aceto eccellente, migliore persino di quello di Alessandria.”. In questo passaggio, Plinio descrive la preparazione di una bevanda fermentata a base di fichi, nota come "sycites", e menziona la produzione di un aceto pregiato ottenuto dai fichi di Cipro.
Carl Linnaeus, 1707–1778, il padre della moderna classificazione scientifica, nel suo celebre trattato “Systema Naturae” del 1753 attribuì al fico comune il nome “Ficus carica”. L'epiteto "carica" si riferisce alla regione della Caria, un'antica area dell'Asia Minore, situata nell'attuale Turchia sud-occidentale, famosa per la coltivazione degli alberi di fico.
Nel canto XV dell'Inferno, Dante Alighieri, 1265 – 1321, incontra il suo maestro, Brunetto Latini, e utilizza il simbolismo del fico:
Ma se tu vuoi sapere chi sia,
sappi ch'io fui Brunetto Latini,
…
Ma quello ingrato
popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte
e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Ancora oggi, il fico è profondamente radicato nella nostra cultura, non solo come frutto millenario, ma anche come simbolo di espressione.
Dire “sei un figo” è diventato un modo colloquiale e moderno per descrivere una persona che si distingue per stile, carisma e unicità.
Questa espressione, inclusiva e adattabile, riflette una società sempre più attenta all’uguaglianza e alla fluidità culturale.
Persino Dante, nella sua Commedia, ha riconosciuto la forza simbolica del linguaggio e del fico, utilizzando l’espressione 'fiche' per rappresentare il disprezzo e la sfida del sacrilego Vanni Fucci verso Dio (Canti XXIV e XXV dell'Inferno).
Questo dimostra come il linguaggio, dalle sue radici volgari fino alle sue evoluzioni moderne, continui a esplorare e rappresentare tutte le sfumature dell’animo umano, dalle più alte alle più basse.
Così, il fico rimane ancora presente, simbolo eterno di tradizione e trasformazione culturale.
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